Il think tank European Council on Foreign Relations lancia l’allarme sul secondo “China shock” e sulla forza dirompente delle case automobilistiche cinesi integrate verticalmente, capaci di produrre veicoli a nuove energie a costi molto più bassi rispetto ai competitor occidentali. Il report mette in guardia inoltre sul rischio di “sinicizzazione” delle grandi marche europee, sempre più imprigionate in filiere controllate da Pechino
Senza una risposta politica europea rapida e decisa, il cosiddetto “secondo China shock” potrebbe devastare il cuore industriale europeo. È quanto emerge dal policy brief dal titolo Electric shock: The Chinese threat to Europe’s industrial heartland pubblicato dallo European Council on Foreign Relations, a firma di Janka Oertel, a capo del programma Asia dello stesso think tank, Jakub Jakóbowski, vicedirettore del Centre for Eastern Studies.
Il vantaggio cinese
“Se le tendenze attuali dovessero proseguire – senza una pronta e risoluta risposta di politica industriale europea – il secondo China shock potrebbe sconvolgere il panorama industriale del Vecchio Continente”, si legge nel rapporto. E ancora: “La struttura della supply chain verticalmente integrata delle aziende automobilistiche cinesi, unita alle economie di scala interne, permette loro di produrre veicoli a nuove energie (NEV) a costi significativamente inferiori rispetto ai concorrenti occidentali”. Questo squilibrio di costo nasce da un mix di grandi investimenti pubblici nel settore, sussidi statali e controlli doganali protettivi che favoriscono la filiera nazionale cinese. Ne derivano prezzi di vendita che le case europee non possono replicare, a meno di decine di miliardi di euro di supporto pubblico e di una ristrutturazione profonda dei processi produttivi.
I pericoli della sinicizzazione
Il report prosegue sottolineando come “in Cina, i grandi marchi europei rischiano di diventare sempre più ‘domesticati’ nell’ecosistema industriale cinese, incatenando il loro destino a quello del governo di Pechino”. Allo stesso tempo, mentre le imprese cinesi “si insediano in Europa – senza alcun obbligo di investire, creare posti di lavoro locali o condividere tecnologia e know-how – il cuore industriale europeo rischia di ridursi a linee di assemblaggio di componenti prodotti in Cina”, si legge ancora. In Europa, i marchi europei potrebbero diventare sempre più dipendenti da componenti cinesi made in Europe. Per esempio, cita il report, il colosso cinese delle batterie CATL produce già per Mercedes-Benz in Europa solo per l’assemblaggio finale, spesso con personale cinese, soppiantando gli attori europei. Questo fenomeno non solo erode la posizione competitiva delle aziende europee, ma crea dipendenze strategiche che il governo cinese può utilizzare come leva geopolitica.
L’Italia nell’occhio del ciclone
L’Italia è parte integrante delle catene di approvvigionamento tedesco e centro-orientale, soprattutto nel settore automotive e della componentistica. Ci sono aziende che forniscono pezzi e know-how alle case tedesche, e a loro volta dipendono dal mercato cinese per volumi e investimenti. C’è il rischio di delocalizzazione: molti fornitori italiani potrebbero vedere spostarsi la produzione verso gli stabilimenti CATL o altri giganti cinesi, riducendo investimenti e posti di lavoro in regioni industriali come Monza-Brianza e Torino. Poi, la dipendenza tecnologica: senza un piano europeo coordinato, l’Italia rischia di cedere know-how sulle batterie e sulla gestione dei dati dei veicoli elettrici. Infine, si può parlare di opportunità mancate: lo sviluppo di “zone di competitività” europee (suggerite dal report per turbine eoliche e idrogeno) potrebbe essere esteso anche all’asse Milano-Monaco, incentivando investimenti congiunti in gigafactory e centri di ricerca e sviluppo.
Verso una risposta europea
Per resistere al colpo, il rapporto conclude con tre raccomandazioni. Prima, politiche di de-risking per diversificare i partner nella filiera e ridurre la dipendenza da un singolo mercato. Seconda, strategie di system competitiveness, puntando su cluster tecnologici avanzati e su investimenti pubblici-privati coordinati a livello di Unione europea. Terza, incentivi alla localizzazione di ricerca e sviluppo e di produzione di tecnologie chiave, non solo nei Paesi “core” come Germania e Francia, ma anche in Italia e negli Stati membri dell’Est. L’alternativa, avvertono Jakóbowski e Oertel, è un sistema industriale europeo ridotto a semplice assemblatore di componenti orientali, privo di autonomia strategica e con un tessuto produttivo sempre più fragile.