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Dal Califfato ai corridoi geoeconomici. Così Trump modella il Golfo

Di Vas Shenoy

Nel suo primo mandato, Trump ha ridefinito i rapporti con Arabia Saudita, Emirati e Qatar, trasformandoli da semplici alleati a co-architetti della stabilità regionale. La sua strategia mira a contenere Iran, Cina e Turchia, rafforzando un’alleanza indo-mediterranea fondata su moderazione islamica, sicurezza e sviluppo condiviso

Nel suo primo viaggio ufficiale – in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar – il presidente statunitense Donald Trump ha segnato una netta discontinuità rispetto alla diplomazia convenzionale. Non si è trattato di un gesto simbolico, ma dell’espressione di una strategia precisa: elevare le potenze islamiche medie a protagoniste centrali di un nuovo ordine globale guidato dagli Stati Uniti.

Gli Stati del Golfo – a lungo considerati semplicemente giganti energetici e partner finanziari – nella visione di Trump sono stati riconfigurati come pilastri ideologici e geopolitici. La loro influenza va ben oltre il petrolio: attraverso media, religione, investimenti e diplomazia regionale, plasmano le narrazioni nel mondo musulmano. L’approccio di Trump li ha trasformati da clienti del potere americano a co-architetti della stabilità regionale. Coinvolgendoli come investitori nell’economia americana, come acquirenti dell’apparato militare statunitense, e come stakeholder in progetti strategici come il Corridoio Economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC), l’amministrazione Trump ha cercato di allontanarli da Iran, Cina e Russia. L’obiettivo non era solo il contenimento, ma anche la cooptazione della leadership ideologica dell’Islam sunnita tramite visite, accordi e legami personali.

Questo cambio di paradigma si è fatto ancora più urgente con l’evoluzione del fondamentalismo islamista sponsorizzato dagli Stati. Gli attentati di Hamas contro Israele il 7 ottobre e l’omicidio di turisti indù in India il 22 aprile hanno messo in luce un’ampia gamma di minacce. L’Iran sostiene proxy come Hezbollah, Hamas e gli Houthi; il Pakistan, con l’appoggio implicito di Turchia e Cina, sfrutta gruppi jihadisti sunniti per fare pressione sull’India. Intanto, conflitti attivi o latenti infiammano Somalia, Sudan, Yemen e Iraq – scenari dove solo il consolidamento delle tre potenze islamiche medie può offrire un contenimento credibile. Tutti questi conflitti hanno dimostrato la capacità di minacciare commercio globale e prosperità.

Le tre potenze – Arabia Saudita, Emirati e Qatar – hanno rinnovato la loro alleanza con gli Stati Uniti, promesso massicci investimenti e, con essi, un impegno implicito a contenere le rispettive sfere d’influenza in favore della politica estera americana, garantendo anche la sicurezza di Israele. Un esempio emblematico è stato l’incontro informale a Riad tra Ahmed Al-Sharaa e il presidente USA, reso possibile dall’intervento del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Al-Sharaa, ex jihadista dell’ISIS diventato uomo di Stato, è oggi simbolo di moderazione islamica. L’incontro apre la possibilità all’ingresso della Siria negli Accordi di Abramo (e forse nell’IMEC), al riconoscimento di Israele e al ritorno della centralità siriana nella politica mediorientale. Nel frattempo, l’acquisizione da parte degli Emirati dei diritti portuali a Tartus – unico avamposto navale russo nel Mediterraneo – segnala una ricalibratura della geopolitica levantina, spostando silenziosamente il baricentro regionale da Mosca a uno sviluppo sostenuto dal Golfo.

Mentre la Cina favoriva il rientro della Siria nella Lega Araba, gli Stati Uniti si muovevano dietro le quinte per riaffermare la propria influenza. Trump e il principe Mohammed bin Salman hanno iniziato a progettare la reintegrazione economica e diplomatica di Damasco. Pur cercando una distensione con Mosca per dividere il fronte russo-cinese, Trump ha contemporaneamente accerchiato la Repubblica Islamica. Indebolito dai raid israeliani, l’Iran affronta una situazione economica, politica e sociale sempre più drammatica. Se il regime non negozia con Trump, rafforza l’opposizione interna; se invece raggiunge un’intesa con gli Stati Uniti, si indebolisce davanti ai suoi proxy. Un vero zugzwang geopolitico.

La Turchia, formalmente alleata nella Nato, trae legittimità dai Fratelli Musulmani e cerca disperatamente di affermarsi come potenza mediana, pur sfidando ogni definizione liberale di democrazia. Erdoğan si oppone da tempo alla visione saudita ed emiratina di un mondo sunnita post-estremista. Il Qatar, suo alleato più vicino, continua a finanziare e ospitare reti legate alla Fratellanza. Tuttavia, nonostante l’ambizione di Erdoğan, la tendenza generale è chiara: gli Stati del Golfo si sono orientati decisamente verso una governance tecnocratica, la moderazione religiosa e l’integrazione globale. Le aspirazioni neo-ottomane di Erdoğan appaiono sempre più contenute – più reattive che strategiche. La visita di Trump ai paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo potrebbe isolarlo ulteriormente, spingendolo a rivalutare il valore del sostegno americano.

A un secolo dall’abolizione del Califfato nel 1924 e all’avvicinarsi del centenario della fondazione dei Fratelli Musulmani nel 1928, la battaglia oggi è contro la narrativa dell’Ikhwan al-Muslimun, che diffonde ideologia radicale e destabilizzazione da Palestina al Kashmir e che ha di fatto sostituito il Califfato ottomano come riferimento delle componenti radicalizzate dell’Islam sunnita. Solo le tre potenze medie del Golfo hanno risorse e legittimità per contrastarla. E Trump lo ha compreso.

Nel grande scacchiere delle potenze – Stati Uniti, Cina e Russia – il ruolo delle potenze islamiche medie è diventato centrale dall’Asia all’Africa. Nonostante quasi 650 milioni di musulmani – un terzo dell’ummah – siano concentrati nel subcontinente indiano (India, Pakistan, Bangladesh, Afghanistan, Xinjiang), l’influenza dei paesi del Golfo sull’identità, la narrativa e il finanziamento dell’Islam ha peso e rilevanza globale, ed è cruciale per la sicurezza del Medio Oriente e dell’Asia.

La diplomazia di Trump ha riconosciuto questo potere. Rafforzando i legami con il Gcc e isolando Iran e Pakistan, gli Stati Uniti hanno contenuto l’espansione economica e ideologica della Cina nella regione.

L’India deve valutare le implicazioni di lungo termine delle mosse di Trump. A breve termine potrebbe sembrare che esse favoriscano il Pakistan o lo collochino sullo stesso piano dell’India, ma a lungo termine Trump ha ulteriormente isolato Islamabad dalle potenze islamiche medie, costringendola a un bivio esistenziale: cambiare rotta o frammentarsi. Nonostante la spavalderia dei generali di Rawalpindi, il segnale più forte d’insicurezza dopo il cessate il fuoco è arrivato dalla Cina, con la provocazione sul nome dell’Arunachal Pradesh. Se l’alleanza sino-pakistana avesse davvero prevalso, Pechino non avrebbe mostrato così rapidamente un segno di debolezza.

Grazie alla diplomazia di Trump, India e Israele sono emersi come partner strategici paritari degli Stati Uniti in una nuova geometria globale: l’India ancora l’Indo-Pacifico, Israele garantisce la sicurezza del Medio Oriente, e gli Stati del Golfo legano l’architettura regionale con capitale ideologico e finanziario. Si tratta di una partnership trilaterale in cui Israele protegge il fianco occidentale, l’India quello orientale e le potenze del Golfo promuovono un modello di prosperità condivisa che indebolisce l’estremismo e amplia l’influenza comune – una vera alleanza Indo-Mediterranea.

Ponendo le potenze islamiche medie al centro della sua politica estera, Trump non si è limitato a sovvertire il vecchio ordine: ha iniziato a costruirne uno nuovo. Un ordine in cui ideologia, energia, sicurezza e diplomazia convergono non più secondo logiche di patronato, ma di partenariato. E in cui il vero equilibrio del potere non si misura solo in armi o mercati, ma in chi detiene il potere di definire il futuro del mondo islamico.


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