Di fronte alle crescenti minacce alla sicurezza europea e al mutevole equilibrio geopolitico globale, l’Unione europea si trova a un punto di svolta nella sua evoluzione come attore strategico autonomo. La guerra in Ucraina, il riorientamento delle priorità americane verso l’Indo-Pacifico e l’intensificarsi di minacce ibride stanno spingendo Bruxelles a ripensare radicalmente i propri meccanismi di difesa collettiva, bilanciando l’alleanza atlantica con una crescente responsabilità europea. L’analisi del generale Ivan Caruso, consigliere militare della Sioi
Nel contesto di crescente instabilità geopolitica, l’Unione europea sta accelerando il processo di rafforzamento della propria architettura di difesa collettiva. Lo scorso 15 maggio, durante la riunione del Comitato militare dell’Ue (Eumc) a livello di capi di Stato maggiore della Difesa, presieduta dal generale austriaco Robert Brieger, è emersa con forza la necessità di “operazionalizzare” l’Articolo 42.7 del Trattato di Lisbona, la clausola di mutua difesa europea.
L’articolo 42.7: potenzialità e limiti
L’articolo 42.7 del Trattato di Lisbona rappresenta un elemento cardine della sicurezza europea, eppure la sua implementazione pratica rivela un paradosso significativo. Formalmente, questa clausola di mutua difesa presenta una formulazione persino più vincolante rispetto al celebre articolo 5 della Nato, imponendo un vero e proprio “obbligo” di assistenza reciproca tra Stati membri in caso di aggressione armata. Nonostante questa robustezza formale, la sua efficacia operativa risulta notevolmente indebolita da diversi fattori strutturali.
In primo luogo, l’articolo deve necessariamente piegarsi alle esigenze costituzionali di quegli Stati membri che mantengono uno status di neutralità. Questa necessità di rispettare le singole posizioni nazionali introduce inevitabilmente un elemento di ambiguità nell’interpretazione dell’obbligo di assistenza, limitandone la portata e l’uniformità di applicazione. In seconda battuta, l’articolo si inserisce in un contesto di sovrapposizione con altri impegni di difesa collettiva, esplicitamente riconoscendo la Nato come fondamento primario della sicurezza europea. Questa subordinazione de facto all’Alleanza Atlantica finisce per ridimensionare il valore strategico autonomo dell’articolo stesso, relegandolo a un ruolo complementare piuttosto che alternativo.
Forse la debolezza più evidente risiede nell’assenza di meccanismi centralizzati di coordinamento. A differenza della struttura Nato, dove il Consiglio atlantico può coordinare una risposta unificata, l’attivazione dell’articolo 42.7 lascia a ciascuno Stato membro la libertà di determinare autonomamente la natura e l’entità del proprio contributo. Questa frammentazione decisionale rischia di tradursi in una risposta disorganizzata e potenzialmente inefficace di fronte a una minaccia concreta. Come ha lucidamente osservato il generale Brieger, l’attuale impostazione della politica di sicurezza e difesa dell’Ue, focalizzata principalmente sulla gestione di crisi esterne, si rivela inadeguata alle sfide contemporanee e future. La crescente instabilità geopolitica richiede una capacità di risposta più coesa e strutturata, capace di affrontare minacce dirette al territorio europeo.
Sul piano operativo e giuridico, emergono ulteriori complessità che ostacolano una piena operazionalizzazione dell’articolo 42.7. Un vincolo particolarmente stringente deriva dall’articolo 42.1 dello stesso Trattato, che limita l’impiego delle capacità operative sviluppate nell’ambito della Politica di sicurezza e difesa comune (Csdp) alle sole missioni esterne all’Unione, le cosiddette “Petersberg tasks”. Questo impedimento formale significa che, paradossalmente, le strutture e le capacità sviluppate dall’Ue non potrebbero essere legalmente impiegate per la difesa del territorio europeo senza una sostanziale revisione del Trattato stesso.
A livello istituzionale, l’assenza di un Consiglio Difesa autonomo rappresenta una carenza strutturale significativa. Attualmente, le questioni di difesa vengono trattate all’interno del consiglio Affari esteri, diluendone l’importanza e la specificità. Questa configurazione istituzionale riflette una storica reticenza europea a sviluppare una dimensione militare autonoma, privilegiando invece gli aspetti diplomatici e civili della sicurezza. Parallelamente, l’Ue non dispone di strutture di comando e controllo paragonabili allo Shape (Supreme headquarters allied powers Europe) della Nato, indispensabili per coordinare operazioni militari su larga scala. Questa lacuna operativa limita drasticamente la capacità dell’Unione di pianificare e condurre autonomamente operazioni complesse di difesa territoriale.
La dimensione politica costituisce forse l’ostacolo più difficile da superare. Numerosi Stati membri, in particolare quelli dell’Europa orientale come Polonia e Paesi Baltici, considerano la garanzia di sicurezza offerta dalla Nato e dagli Stati Uniti come irrinunciabile e prioritaria. La loro esperienza storica e la percezione di una minaccia russa imminente alimentano una comprensibile diffidenza verso qualsiasi iniziativa che potrebbe potenzialmente indebolire il legame transatlantico o creare strutture percepite come duplicative. Questa resistenza politica si traduce in un atteggiamento cauto, quando non apertamente scettico, verso lo sviluppo di capacità europee autonome che potrebbero sembrare alternative all’ombrello Nato.
Complementarità con la Nato
Un aspetto fondamentale è la ricerca di complementarità con la Nato. Come ha precisato Brieger: “La difesa collettiva rimarrà nelle mani dell’Alleanza Atlantica, ma sappiamo che gli Stati Uniti stanno spostando il loro interesse verso l’Indo-Pacifico e c’è una chiara necessità di fare di più sul suolo europeo”. Questo approccio richiede una delicata mediazione tra esigenze contraddittorie. Da un lato, numerosi Stati membri si oppongono alla duplicazione delle strutture Nato, trincerandosi dietro il principio del “single set of forces”. Dall’altro, emerge l’urgenza di sviluppare capacità europee autonome. I vertici militari europei hanno proposto un approccio pragmatico che punta a identificare aree di complementarità dove l’Ue può apportare un valore aggiunto, integrando le proprie competenze con le capacità militari tradizionali, senza sovrapporsi alle strutture Nato.
Pianificazione strategica e capacità militari
La definizione delle capacità militari necessarie per la difesa collettiva europea presenta notevoli sfide metodologiche. La pianificazione tradizionale richiede una chiara identificazione degli scenari di riferimento, un aspetto particolarmente complesso nel contesto dell’Ue. Questa complessità genera tensioni tra gli Stati membri Nato e quelli che ne restano fuori. I primi tendono a preferire un allineamento con i processi di pianificazione dell’Alleanza, mentre i secondi auspicano lo sviluppo di procedure autonome.
Il riavvicinamento con il Regno Unito
Un elemento cruciale è il riavvicinamento con il Regno Unito, formalizzato il 19 maggio 2025 con la conclusione della Partnership sulla sicurezza e la difesa. Questo accordo integra nuovamente nella difesa europea un attore militare di primo piano, dotato di capacità nucleari e seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La partnership prevede dialoghi ad alto livello, consultazioni strategiche e iniziative congiunte in numerosi ambiti: peacekeeping, gestione delle crisi, sicurezza marittima e spaziale, cybersecurity, contrasto alle minacce ibride, controterrorismo e resilienza delle infrastrutture critiche. Come sottolineato dall’alto rappresentante Kaja Kallas: “L’accordo mostra la nostra responsabilità condivisa per la sicurezza in Europa e oltre. Siamo determinati ad aumentare la nostra cooperazione in un ambiente globale sempre più pericoloso”.
Prospettive future
L’evoluzione dell’architettura di difesa europea riflette la crescente consapevolezza della necessità di rispondere autonomamente a un panorama di minacce in rapida evoluzione. La sfida principale sarà tradurre le intenzioni politiche e gli investimenti in capacità operative concrete e meccanismi decisionali efficaci. Ciò richiederà non solo risorse finanziarie, ma anche la volontà politica di superare le divisioni tra Stati membri, particolarmente quella tra i paesi orientali, più focalizzati sulla minaccia russa e sul legame transatlantico, e quelli occidentali, tradizionalmente più orientati verso l’autonomia strategica europea. L’operazionalizzazione dell’Articolo 42.7 rappresenta sia una sfida tecnico-giuridica che un test della reale volontà politica europea di assumersi maggiori responsabilità nella propria difesa, in complementarità con la Nato ma con una crescente autonomia decisionale e operativa.