Il rappresentante di Italia Viva al Copasir ha partecipato questa settimana al Parliamentary Intelligence-Security Forum di Madrid. “Le rivoluzioni tecnologica e geopolitica hanno globalizzato lo scenario delle minacce”, racconta a Formiche.net
Questa settimana Enrico Borghi, senatore di Italia Viva, è volato a Madrid, in Spagna, per partecipare alla ventinovesima edizione del Parliamentary Intelligence-Security Forum come rappresentante del Copasir. Presenti parlamentari di molti Paesi alleati e like-minded dell’Italia. “C’è una consapevolezza più che diffusa del fatto che lo scenario delle minacce oggi è globale per via delle rivoluzioni, tecnologica e geopolitica, che stiamo affrontando e che si intrecciano fra loro”, racconta a Formiche.net.
E questo che cosa comporta?
Vediamo due fenomeni. Il primo: la criminalità mondiale utilizza questa scala per alimentare il proprio giro d’affari con droga, tratta degli esseri umani e riciclaggio di denaro. Il secondo: le autocrazie sfruttano questo contesto per introdurre strategie su questioni cruciali come cybersicurezza, intelligenza artificiale e criptovalute – temi, come l’integrazione fra neuroscienze e sviluppi digitali, oltreché la guerra ibrida, di cui abbiamo discusso a Madrid e su cui è emersa una consapevolezza diffusa sia pure con accezioni e peculiarità.
D’accordo sull’analisi, ma anche sulle contromisure?
È chiaro che gli Stati africani, per fare un esempio, temono una nuova colonizzazione sull’intelligenza artificiale. Ma in generale, ci sono due questioni sistemiche che emergono. La prima riguarda gli standard globali davanti a un paradigma dell’innovazione tra pubblico e privato che si è ribaltato dalla fine della Guerra Fredda: qual è la scala giusta per affrontare questi temi? La seconda è che l’evoluzione e la rapidità dell’impatto tecnologico sta obbligando gli Stati, in assenza di capacità e risposte adeguate, ad affidarsi a terzi e a privati per l’erogazione di funzioni critiche. Questo vale anche per l’Italia e il caso Paragon lo dimostra. Se oggi le startup che prima venivano governate dal pubblico adesso governano il pubblico emerge un rischio di corto circuito per la sicurezza nazionale.
Come fare innovazione, però? Da una parte ci sono gli Stati Uniti e i loro animal spirits. Dall’altra la Cina con casi da manuale come Huawei, che è nata come spin-off delle forze armate per poi imporsi sui mercati internazionali. E l’Europa?
È più che mai urgente aprire una riflessione sul modello d’impiego delle risorse, anche quando si parla degli obiettivi di spese militare in ambito Nato. Il modello dei “campioni europei” proposto da Mario Draghi oppure un approccio di tipo “ognuno per sé”?
Nel suo libro, Sotto attacco (Rubbettino), che verrà presentato mercoledì in Senato, c’è un capitolo dedicato all’intelligence per il domani. Da dove partire?
Oltre a quel capitolo, ce n’è uno finale con una cassetta degli attrezzi di proposte riformiste rispetto a questi temi. Per esempio, c’è una ricognizione delle organizzazioni degli altri Paesi occidentali. E soltanto in Spagna c’è il servizio unico, che qualcuno ha invocato in Italia. Ma lasciando da parte la discussione sul numero delle strutture, credo bisognerebbe andare verso la specializzazione dell’intelligence rispetto alle nuove dinamiche che stanno emergendo. La legge 124 del 2007 è analogica da questo punto di vista, essendo stata pensata in un’epoca nella quale non esisteva il digitale. Inoltre, penso servirebbe fare un tagliando all’Agenzia per la cybersicurezza nazionale soprattutto per quanto riguarda le modalità di selezione del personale che non vanno nella direzione di far emergere professionalità e competenze. Inoltre, è urgente costituire un Consiglio di sicurezza nazionale e prevedere, nei principali ministeri coinvolti nella sicurezza nazionale, dei cosiddetti red team per le previsioni e le analisi di scenario per valutare i provvedimenti dal punto di vista della sicurezza nazionale oltreché per gli impatti strettamente giuridici o economici.
Lei fa spesso riferimento al primato della politica. Anche su queste materie?
Bisogna ricercare il primato della politica anche e soprattutto nell’intelligence. L’organizzazione deve essere funzionale e conseguente all’obiettivo politico. Invece oggi accade spesso il contrario, con un approccio eccessivamente corporativo che, in assenza di un’idea forte della politica, porta poi al conservatorismo della struttura stessa. È una cosa naturale dal punto di vista in sé ma è cosa perniciosa dal punto di vista dell’esigenza di aggiornare e di adeguare strumenti così delicati.
E guardando oltre l’intelligence?
Nel libro propongo cinque mosse: un ministero per il Mediterraneo, cioè un dicastero che sia indipendente dalla Farnesina, che risponda direttamente al presidente del Consiglio e si occupi del cosiddetto Mediterraneo allargato; il Consiglio di sicurezza nazionale; l’Agenzia per la sicurezza cognitiva; la riforma del Centro Alti Studi Difesa per abbracciare la sicurezza nazionale in senso olistico; i red-team nei ministeri strategici; la strategia di sicurezza nazionale, che deve essere approvata dal parlamento sulla base di una proposta del governo sulla scorta dell’istruttoria del Copasir.
Perché un passaggio parlamentare?
Credo sia necessario in quanto renderebbe il documento vincolante, perché la sicurezza nazionale non è mai di parte: il governo la attua e l’opposizione controlla, ma la modalità di costruzione deve essere bipartisan perché altrimenti è debole in partenza.
Ma prima il Consiglio di sicurezza nazionale o la Strategia?
Se fossi il presidente del Consiglio nominerei subito il ministro della Sicurezza e gli darei mandato di fare, insieme con il presidente del Copasir, il piano per la sicurezza, che prevede anche la strategia.