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Perché si è dimenticato lo Statuto dei lavoratori? L’opinione di Merlo

Esiste una distanza quasi siderale tra una stagione che è stata caratterizzata da riforme che hanno inciso in profondità sulla vita concreta dei lavoratori e dei ceti popolari, che sino a quel momento convivevano con una situazione di oggettiva emarginazione e difficoltà nei luoghi di lavoro e quindi nell’intera società e l’attuale contesto politico, culturale e sindacale. Il commento di Giorgio Merlo

C’è una domanda che è passata inosservata in questi giorni e che evidenzia un silenzio alquanto preoccupante se non addirittura inquietante. Parlo del 55° anniversario dell’approvazione dello “Statuto dei lavoratori”, il 20 maggio del 1970. Cioè della più grande operazione riformista, democratica e costituzionale dal secondo dopoguerra che ha riguardato il mondo del lavoro nel nostro paese. Alcuni lo definirono un “capolavoro” dell’allora Ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin – o “dei lavoratori” come si definiva lo statista piemontese -, altri come il pilastro decisivo per la “difesa dei diritti dei lavoratori”, altri ancora come uno dei più autorevoli “progetti riformisti e di governo” dell’Italia democristiana.

Forse la definizione più calzante resta proprio quella di Donat Cattin quando disse nel dibattito alla Camera quel 20 maggio del ‘70 che “abbiamo portato la Costituzione repubblicana nelle fabbriche”. Eppure una coltre di silenzio ha travolto questa ricorrenza. Seppur solo una ricorrenza da calendario ma, comunque sia, sempre molto importante. Anche e soprattutto in vista dei referendum del prossimo giugno. Certo, dopo 55 anni i rapporti di lavoro, il mondo della produzione, il contesto sociale, politico e culturale sono cambiati radicalmente. Al punto che parlare oggi di fabbriche rasenta quasi un linguaggio datato se non del tutto romantico perché, appunto, storicizzato.

Ma c’è un aspetto che non passa di moda. E riguarda proprio i diritti dei lavoratori e le condizioni di vita delle persone che lavorano, frutto di una visione politica, culturale e di governo che non può essere confusa con il vociare contemporaneo, conseguenza di un approccio propagandistico e populista che è quasi alternativo rispetto ad una stagione profondamente riformista e di governo come quella che abbiamo sperimentato alla fine degli anni ‘60 e con l’inizio degli anni ‘70 nel nostro Paese. E non è un caso che alla vigilia di referendum del tutto inutili ed oggettivamente propagandistici nonché, purtroppo, anche nocivi per le condizioni di vita dei lavoratori, non c’è alcun riferimento, neanche simbolico, a quella stagione.

E, nello specifico, a quello “Statuto dei lavoratori”. E la risposta è altrettanto semplice. Perché esiste una distanza quasi siderale tra una stagione che è stata caratterizzata da riforme che hanno inciso in profondità sulla vita concreta dei lavoratori e dei ceti popolari che sino a quel momento convivevano con una situazione di oggettiva emarginazione e difficoltà nei luoghi di lavoro e quindi nell’intera società con l’attuale contesto politico, culturale e sindacale. E su questo versante, forse, è necessario dire una parola chiara che il “politicamente corretto” non può né pronunciare e né tollerare per ragioni del tutto comprensibili ma che, al contempo, non si possono più aggirare.

E cioè, non passa attraverso il massimalismo demagogico, il populismo propagandistico e l’estremismo ideologico la strada per rinnovare e modernizzare il mondo del lavoro. E, soprattutto, la condizione di vita concreta dei lavoratori. Ed è proprio lungo questo filone che emerge la differenza politica – di metodo e di merito – tra due concezioni che storicamente hanno caratterizzato e accompagnato la politica italiana. Da un lato l’approccio riformista, la cultura di governo e la capacità di tradurre in atti politici e in provvedimenti legislativi i bisogni, le istanze e le domande dei lavoratori e dei ceti popolari. Dall’altro il continuo richiamo al massimalismo ideologico, alla propaganda qualunquista e all’estremismo ideologico. È, del resto, la storica ed atavica divisione tra i riformisti e i massimalisti. Nella cultura come nella politica, nei partiti come nel sindacato. Una divisione che c’era ieri e che vale oggi e che, quasi sicuramente, ci sarà anche domani.


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