Secondo il professor Fardella (“L’Orientale”) la mossa di Trump ha un duplice scopo: colpire internamente atenei come Harvard e NYU, fortemente dipendenti dalle rette e dai programmi di ricerca congiunti con la Cina, e indebolire dall’esterno la “testa di ponte” accademica del Partito comunista cinese. Sul piano negoziale, dice, è improbabile un riavvicinamento win-win
Al momento non è noto quanti studenti cinesi saranno interessati dalla decisione dell’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump di revocare i visti. Gli studenti cinesi rappresentano circa il 28% della popolazione internazionale negli Stati UNiti, con quasi 290.000 presenze e un impatto economico superiore ai 15 miliardi di dollari l’anno. Pechino protesta contro la decisione annunciata ieri dal segretario di Stato americano Marco Rubio, accusando Washington di usare “l’ideologia e la sicurezza nazionale come scusa per le loro azioni”, come dichiarato oggi da Mao Ning, portavoce del ministero degli Esteri cinese.
La mossa ha un duplice orizzonte, uno interno e uno esterno, commenta il professor Enrico Fardella, all’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”.
Partiamo dal fronte interno.
È una ulteriore stangata alle università americane come Harvard, finite nel mirino dell’amministrazione con l’accusa di tollerare l’antisemitismo, di non garantire pluralismo ideologico e di essere eccessivamente dipendenti da studenti e finanziamenti stranieri. Oltre al congelamento dei fondi federali l’amministrazione ha avviato la revoca della certificazione SEVP (Student and Exchange Visitor Program) impedendo sia l’iscrizione che la permanenza degli studenti internazionali, e ha ridotto al 15% il limite massimo per la presenza di studenti stranieri.
Ciò può avere implicazioni economiche gravi per il sistema universitario americano?
Considerati i numeri sì. Università come Harvard e NYU, che si basano su un mix di rette elevate e contributi internazionali, rischiano di subire perdite multimilionarie se le restrizioni dovessero concretizzarsi. Inoltre, molti dei programmi scientifici e di ricerca più avanzati contano proprio sulla partecipazione di studenti e dottorandi provenienti dalla Cina.
Il secondo fronte, quello esterno, riguarda le relazioni tra le due superpotenze. Questa decisione come può incidere?
A Washington trumpiani e non concordano solo su una cosa: la politica economica e di sicurezza della Cina Popolare rappresenta una minaccia esistenziale per gli Stati Uniti. La globalizzazione avviata dall’intesa sinoamericana degli anni Settanta celebrava gli scambi culturali e accademici come funzionali al sostegno di una nuova socializzazione produttiva e culturale tra Cina e Occidente che allora rappresentava uno dei principali obiettivi per Washington. Dopo 50 anni si è chiuso un ciclo: la presenza degli studenti cinesi negli Stati Uniti viene percepita come la testa di ponte di un sistema subdolo e minaccioso diretto dal Partito comunista cinese.
Questo dossier potrebbe rientrare nella logica negoziale tipica del presidente Trump?
Non credo, perché non ritengo che la soluzione dei rapporti tra Washington e Pechino possa essere miracolosamente trovata tra le pagine dell’Art of the deal. Credo che ormai si è giunti a un punto per il quale le soluzioni win-win siano del tutto inverosimili. Per raggiungere un accordo sostenibile una delle due parti deve dunque accettare di pagarne il costo: o gli Stati Uniti decideranno di essere un vassallo industriale di Pechino, cosa del tutto improbabile, o la Cina sarà costretta ad accettare una trasformazione sostanziale delle sue linee di politica economica e di sicurezza, cosa altrettanto complessa. Ogni altro accordo, per quanto valido, rappresenterebbe una mera dilazione della drammatica risoluzione di un problema sistemico ben più ampio ossia quello determinato dall’impatto dell’export cinese sul sistema del dollaro e, in buona sostanza, sul futuro dell’American Dream che Trump dice di voler ricostituire.
(Foto: White House)