A poco meno di un mese dal summit Nato, il primo nel secondo mandato Trump, cresce l’attenzione sui temi di maggior urgenza. Dalla necessità di aumentare il budget per la difesa al sostegno a Kiyv, il vertice atlantico richiederà agli Stati membri di implementare i propri apparati militari per lo sviluppo di una difesa comune che sappia limare i punti di attrito interni ed esercitare una efficace protezione dalle molte minacce che si avvicinano ai fianchi dell’Alleanza atlantica. L’analisi del generale Massimiliano Del Casale
A meno di un mese dal summit atlantico nella capitale olandese, cresce l’attesa per un evento che si preannuncia di portata storica, con 32 Capi di Stato e di governo che dovranno confrontarsi su temi spesso divisivi. Ed è forte l’attesa per la prima volta di Donald Trump, nel suo secondo mandato presidenziale.
Tanti i temi. Revisione strategica dell’Alleanza, budget nazionali per la difesa, sinergie industriali, conflitti che minacciano gli spazi euro-atlantici, ruolo del “pilastro europeo” e dei Paesi c.d. “volenterosi”. Ma fino a che punto i risultati saranno all’altezza delle aspettative? Esiste un problema di fondo, i diversi punti di attrito tra Stati Uniti e alleati europei e nell’ambito di questi ultimi. Per i bilanci della difesa, da tempo Trump chiede un aumento al 5% dei Pil nazionali, a fronte del 2% sinora concordato. Un traguardo distante per la maggioranza dei Paesi membri. Il nostro governo ha preannunciato che al vertice del 24-26 giugno dichiarerà il raggiungimento della soglia del 2% di Pil, frutto di maggiori risorse per il 2025 e di una più coerente imputazione delle voci di spesa, omologate a quelle dei nostri alleati.
Sul conflitto russo-ucraino, la posizione americana è netta. Recentemente, il segretario di Stato alla difesa, Pete Hegseth, ha affermato che la fine delle operazioni militari è prioritaria. Secondo il capo del Pentagono, si dovrà attivare una missione di peacekeeping con forze militari anche europee, ma non statunitensi, e senza la copertura offerta dall’articolo 5 del trattato del Nord Atlantico. Da escludere poi ogni prospettiva di ingresso dell’Ucraina nella Nato e l’Europa dovrà “assumersi la responsabilità della propria difesa convenzionale”.
Ovviamente, “gli Usa restano impegnati con la Nato ma non tollereranno più squilibri”. Un messaggio chiaro per tutte le cancellerie. La Ue, se da un lato conferma il pieno sostegno a Kyiv, rinunciando a una vera azione diplomatica, ma con la pretesa di partecipare alle trattive per la pace, dall’altro, “offre” l’ennesima occasione di far debito ai Paesi membri per implementare i rispettivi sistemi di difesa, ma senza adeguare il patto di stabilità per porre le spese militari al di fuori della previsione normativa.
Così, mentre gli Stati Uniti cercano di tessere una tela diplomatica per portare a un tavolo i due nemici ai massimi livelli di rappresentatività, i segnali più contrastanti provengono proprio dai partner europei. Sul piano strategico, Trump persegue un riavvicinamento di Putin all’Occidente, allo scopo di disgregare il connubio venutosi a creare tra Russia e Cina, vero contendente globale degli Usa. Ma mentre si cerca un difficile dialogo col Cremlino, la Ue decide di adottare il 17esimo pacchetto di sanzioni contro Mosca, pur continuando a importare dalla Russia gas liquefatto, il Gnl.
Così come segnali contrastanti giungono dai Paesi “volenterosi”, Uk, Francia, Germania e Polonia, che a metà maggio si sono riuniti a Tirana col presidente ucraino, Zelensky, dopo il rifiuto russo per un cessate il fuoco. Riunione in occasione della quale la nostra premier ha ribadito telefonicamente il proprio sostegno all’Ucraina, non trovando producente partecipare di persona a un summit in cui si sarebbe inevitabilmente discusso di forze militari da schierare in territorio ucraino, una volta cessate le ostilità. Una prospettiva sempre scartata dal governo italiano. Pronta la replica di Emanuel Macron che ha dichiarato l’assenza di tale tema dall’agenda dei lavori. Ma è lecito qualche dubbio al riguardo, in quanto fu proprio il presidente francese ad annunciare a sorpresa, a fine marzo, la volontà di dar vita a una “forza di rassicurazione”, senza illustrarne né compiti né caratteristiche operative.
Appare evidente l’ambizione di creare un’ossatura portante, un “fronte europeo di difesa da Parigi a Varsavia, passante per Berlino”, come ebbe a definirlo in occasione di uno degli ultimi incontri con l’ex-cancelliere tedesco, Olaf Scholz. Guarda caso, all’indomani della prima visita della Meloni a Trump. Che non vi sia un particolare feeling tra i titolari di Palazzo Chigi e dell’Eliseo traspare con chiarezza. Come è altrettanto evidente una certa sintonia manifestata dal tycoon nei confronti della Meloni. Lungi dal rappresentare una garanzia capace di tradursi in un vantaggio concreto, tutto ciò non può nemmeno costituire motivo di acredine tra alleati e partner europei che, al contrario, dovrebbero investire su un’amicizia in grado di valorizzare la partnership tra Ue e Usa.
Un aspetto che ha ben compreso Ursula von der Leyen, rispondendo all’invito italiano di prendere parte al vertice di Roma dello scorso 18 maggio con il vicepresidente americano, J. D. Vance. D’altronde, non sfugge come il presidente francese cerchi in Europa una rilevanza politica, alquanto appannata entro i confini nazionali. Pure annunci eclatanti, come la possibile estensione dell’ombrello nucleare transalpino, la force de frappe, all’Ue (in realtà, solo a Germania e Polonia) -ipotesi peraltro tutta da verificare, alla luce dei vincoli legislativi nazionali- appaiono come un tentativo di attirare l’attenzione generale su un leader in evidente declino politico.
Dal canto suo, la Germania ha annunciato un programma di potenziamento straordinario per le proprie forze armate e infrastrutture per oltre 900 miliardi di euro. Il nuovo cancelliere, Friedrich Merz, intende modificare i vincoli del debito pubblico, introdotti da Angela Merkel nel 2009, superando anche le aperture della Bundesbank per un incremento del rapporto debito/PIL dallo 0,35% all’1,4%. Tale approccio potrebbe anche rappresentare in prospettiva una spinta per modificare il patto di stabilità, che trova strenui difensori tra i Paesi “frugali”, per lo più del Nord e dell’Est.
Insomma, il “pilastro europeo” dell’Alleanza si presenta al vertice de L’Aja con un aspetto tutt’altro che monolitico. Pure nei confronti della crisi israelo-palestinese, vi sono disarmonie di vedute, perdendo di vista l’obiettivo strategico di una stabilità regionale che può essere conseguita solo con il riconoscimento di “due popoli in due Stati”. La speranza è che l’Unione europea esca quanto prima da una condizione di marginalità internazionale che la condanna alla irrisorietà strategica. È vero, esiste un problema di fondo. Sono ancora tante le differenze di interessi e le divergenze di vedute tra l’area occidentale e quella orientale del nostro continente.
Una situazione complessiva che non rende impossibile, ma di sicuro allontana l’orizzonte temporale per giungere agli Stati Uniti d’Europa, un obiettivo che deve attraversare ancora molte stagioni nelle quali l’Unione dovrà dotarsi di strumenti che le consentano di sostenere un ruolo attivo in ambito internazionale, snellendo prima di tutto l’enorme e costoso apparato burocratico che oggi conta ben 150 “organi preparatori del Consiglio”, tra comitati e gruppi di lavoro vari. Difficile che qualcosa possa cambiare nel breve termine. Il Summit Nato di giugno non nasce quindi sotto le migliori stelle, ma l’Italia può esercitare un’importante funzione catalizzatrice di interessi comuni. Non riconoscerlo o, addirittura, metterlo in discussione ci condannerà ancora all’irrilevanza e all’aumento dell’esposizione alla minaccia per la nostra sicurezza.