Per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, l’Europa prende coscienza della propria vulnerabilità strategica in un contesto internazionale sempre più instabile. Il recente summit ha segnato una svolta storica, con l’obiettivo politico di portare al 5% del Pil le spese per la difesa entro il 2035. Un segnale non solo economico, ma culturale. La Nato non è un soggetto esterno, ma un’alleanza di corresponsabilità strategica. Ignorare questo dato oggi significa alimentare le vulnerabilità che Mosca è pronta a sfruttare. Il commento di Andrea Margelletti, presidente del CeSI
Per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, l’Europa ha davvero paura. Una paura concreta, non teorica. E questa volta, a differenza del passato, non sono gli Stati Uniti a spingere per un aumento degli sforzi militari. Sono proprio gli europei a rendersi conto che lo scenario attorno a loro è cambiato, che la minaccia non è più una possibilità remota ma un rischio reale. Non si tratta più di “se”, ma di “quando”.
Il dato emblematico di questo summit è la decisione di puntare al 5% del Pil per la difesa entro il 2035. Ma non è tanto la cifra in sé a contare, quanto il segnale politico e culturale che porta con sé. È il riconoscimento del fatto che la pace non è uno stato naturale delle cose, ma qualcosa che va protetto. E che chi vuole difendere gli ospedali, le scuole, la vita civile, deve prima garantire la propria sicurezza. Chi continua a fare la contrapposizione retorica tra spese militari e spese sociali dimostra solo di non avere compreso la natura della minaccia. O, peggio, di volerla ignorare.
Svezia e Finlandia hanno chiesto l’ingresso nella Nato perché sentono il pericolo. E la Nato ha cambiato passo perché molti dei suoi membri, finalmente, si rendono conto che la guerra non è più confinata altrove. Che non basta dichiararsi neutrali o “contro la guerra” per evitare che ti colpisca. Non siamo in una canzone di Raffaella Carrà dove, se il mondo cade, basta spostarsi un po’ più in là. E se oggi ci sono esponenti pubblici che ragionano ancora in questi termini, vuol dire che abbiamo un problema nel nostro dibattito politico.
Troppo spesso, in Italia come altrove, si parla della Nato come se fosse un’entità esterna. Ma la Nato siamo noi. Se ospitiamo basi alleate sul nostro territorio, è perché facciamo parte di un sistema di difesa collettiva che protegge anche noi. Non è un affitto pagato a una compagnia di vigilanza. È corresponsabilità strategica.
La verità è che gli Stati Uniti, con lo sguardo sempre più rivolto verso il Pacifico, si aspettano che siano gli europei a fare la loro parte. Non perché lo dicono loro, ma perché ormai ce lo impone la realtà. E se l’Europa vuole essere credibile, deve cominciare a investire seriamente. Soprattutto nella sua industria della difesa, che oggi produce troppo poco e troppo lentamente. Servono armi, munizioni, sistemi logistici, e servono ora, non fra quindici anni. È un discorso che faccio da tempo, e che oggi appare evidente a chiunque segua con attenzione ciò che accade sul campo.
Alcuni Paesi lo hanno capito. Non solo la Germania, con la sua storica svolta sulle spese militari, ma anche il Regno Unito, che ha appena annunciato l’acquisto di 12 F-35A, in grado di trasportare testate nucleari. Gli inglesi stanno rientrando nel nuclear sharing della Nato, dopo decenni. Un segnale chiarissimo: la deterrenza torna ad essere centrale, perché la minaccia è sentita come vicina.
Nel frattempo, la Russia continua a combattere su tutti i fronti. Guerra convenzionale, certo, ma anche cyberattacchi, sabotaggi, operazioni psicologiche e controllo delle filiere strategiche. Quando si parlava di aumentare la capacità nucleare francese a supporto dell’Europa, i russi hanno operato in Africa per ostacolare l’accesso francese all’uranio. Non è un caso. È una guerra condotta su scala globale, con intelligenza e profondità. E mentre Mosca si muove, in Europa c’è ancora chi si ostina a non voler vedere. A trattare chi attacca e chi si difende come se fossero sullo stesso piano. A criticare l’Ucraina perché non si arrende. Come se la colpa fosse di chi resiste, non di chi invade. Questo tipo di narrazione, spesso amplificata dai media, è parte integrante della strategia russa. Un modo per minare la nostra coesione dall’interno.
Questo summit è stato un momento di svolta. Un campanello d’allarme che, per una volta, è stato ascoltato. Ora però bisogna tradurre quella consapevolezza in scelte concrete. Perché, piaccia o no, siamo già dentro un conflitto che non abbiamo voluto, ma che non possiamo fingere di non vedere. E chi lo ignora, oggi, rischia di essere corresponsabile della nostra debolezza.