Nei plebisciti non c’è un vincitore perché perde l’idea stessa di comunità che per i “plebiscitari” conta meno sia della possibilità di tornare al governo che di farsi un altro giro – all’opposizione come dicono i famosi numeri – in Parlamento. L’analisi di Alessandro Sterpa, professore di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi della Tuscia
Sapevamo già quanto il referendum fosse uno strumento rozzo che i Costituenti ritenevano del tutto residuale. Ora abbiamo la conferma che possono essere impiegati impropriamente per legittimare una offerta politica e provare a scardinare la maggioranza di governo. Dopo la mutazione genetica del 2016 per i referendum costituzionali, anche gli abrogativi realizzano la loro trasformazione in plebisciti, nonostante la Corte costituzionale, fermando quello sul “regionalismo differenziato”, abbia fortunatamente sottratto al tiro al piccione una parte della Costituzione.
Nel referendum si vota sulle regole giuridiche in una dialettica libera tra opzioni considerate tutte legittime in un clima di serena divisione politica e senza il rischio di crisi di sistema: tant’è che a volte forze politiche altrove alleate si dividono, come può accadere in Parlamento nell’esame di una legge. Il referendum, insomma, è un modo diverso di scrivere – da noi abrogando in tutto o in parte quelle già in vigore – le norme contenute nelle leggi.
Da oggi forse non sarà più così. Nei referendum divenuti plebisciti tutto cambia, è in gioco la sopravvivenza del sistema e la scelta da assumere è così radicale che una delle due opzioni – vincendo – diventa la verità e l’altra – perdendo – la menzogna. Il plebiscito è in grado di dividere la società lungo un confine di volta in volta costruito e comunicato ad arte (prima e dopo l’esito) a prescindere dal contenuto del quesito: si spezza in due la nazione senza preoccuparsi di cosa la tiene insieme e si legittima una politica di mera sopravvivenza elettorale che girando a vuoto può mandare in pezzi la comunità.
In questi mesi alcuni partiti erano preoccupati, più che del raggiungimento del quorum (50% più uno degli elettori) e degli effetti del referendum (cambiare le regole), di mettere insieme un numero di votanti che superasse i quasi 13 milioni di voti ottenuti dal centrodestra vincitore delle politiche del 2022.
L’idea è infantile di suo, ma nel 2025 è imbarazzante allorché presuppone che l’elettore sia un automa inquadrabile una volta per tutte come in un romanzo distopico, mentre sappiamo che è sempre più libero nel modo in cui di volta in volta si esprime. È in grado addirittura, lo sappiamo, di votare lo stesso giorno su due schede diverse partiti tra loro lontanissimi, figuriamoci se è schedabile in voti con sistemi elettorali diversi, elezioni con programmi di governo o quando sono in ballo norme che in pochi riescono a capire nei dettagli. D’altronde in queste elezioni, numeri alla mano, oltre 3 milioni di elettori che hanno scelto il sì all’abrogazione del Jobs Act hanno anche votato contro la velocizzazione delle domande di cittadinanza: paladini magari sindacalizzati dei diritti dei lavoratori davanti ai “padroni” e ignavi con i milioni di “non italiani” che non votano ma sostengono il nostro sistema previdenziale.
L’idea, peraltro, è miseramente fallita non solo in termini di omogeneità politica dell’ammucchiata numerica dei sì che non crea un programma di governo, ma anche per la stessa perversa logica matematica: nel 2022 Pd, alleati e M5S (i partiti attivi per l’abrogazione referendaria) raccolsero un oltre 12 milioni di voti e oggi il primo quesito (il più caratterizzante) conta 13 milioni di sì. E si dimenticano gli altri milioni di elettori (terzo polo e altri) che allora non hanno votato il centrodestra. Un mistero per i “plebiscitari” che si svelerà quando li vedranno arrivare alle urne per le politiche.
Ma l’idea della “grande conta” è bambinesca anche nella misura in cui fa sì che il voto (comunali, regionali, europee e referendum) sia ogni volta usato come un sondaggio a spese della qualità politica del confronto, della proposta di merito, del ruolo degli elettori, risucchiati, tutti, in una campagna elettorale permanente che sacrifica sull’altare di un consenso presunto e isterico ogni cosa: le persone, il dibattito e le istituzioni.
La portata plebiscitaria dei referendum abrogativi risuona anche in questa sorta di “pulizia politica” verso le parti più riformiste della stessa opposizione. Così la sinistra-sinistra ha raccolto le firme su leggi che lo stesso Pd versione Renzi aveva approvato ormai dieci anni fa e che sia la Corte costituzionale che il M5S avevano modificato. Si sa, l’animus plebiscitario pro veritate considera le bugie dei vicini ancor più menzognere di quelle degli avversari con il rischio che la “purezza identitaria” costruisca forme di apartheid politico-culturale spacciate per rinascita di partecipazione.
Chi ha istigato al plebiscito oggi è arrivato – violentando il testo costituzionale – persino a sostenere che non fosse un diritto non partecipare al voto; ha radicato distanze, differenze e diffidenze, minando le condizioni per gli elettori di partecipare con senso critico alle questioni della comunità e rafforzando i presupposti del futuro astensionismo: un istituto costituzionale è stato piegato alla coercizione del sistema istituzionale.
Distruggere i punti comuni, i ponti di collegamento e le aree di comunicazione tra i due più grandi poli che si dividono i consensi elettorali del Paese è un danno di portata costituzionale parente culturale della tirannia della maggioranza di oggi o di domani. Se la politica non se ne accorge vuol dire che è inadeguata; se invece se ne accorge e preferisce correre questi rischi è pericolosa.
Nei plebisciti non c’è un vincitore perché perde l’idea stessa di comunità che per i “plebiscitari” conta meno sia della possibilità di tornare al governo che di farsi un altro giro – all’opposizione come dicono i famosi numeri – in Parlamento.