Nel Palazzo di Viale Trastevere, simbolo della scuola italiana, si è svolta un’evoluzione profonda: dal ministero burocratico e centralizzato dell’era fascista a quello aperto al cambiamento negli anni ’90, ispirato ai valori costituzionali di imparzialità ed efficienza. E oggi? La riflessione di Giuseppe Fiori
Proprio nel cuore di Trastevere c’è un palazzo del Potere, quello dell’Istruzione, simbolo della scuola italiana e di tutti i suoi nodi tematici, con un labirinto di vicoli alle spalle e davanti a Porta Portese. Una collocazione popolar-romanesca e cosmopolita allo stesso tempo, dato il melting pot del mercato domenicale, la cui vicinanza può aver dato la cifra alle interminabili trattative sindacali che si svolgono nei suoi solenni saloni.
Il più importante è quello centrale, al secondo piano, con le pareti ricoperte dai ritratti dei vari ministri da Francesco De Sanctis a Giovanni Gentile, fino a Benedetto Croce, dopo di lui la tradizione è stata interrotta…
Sull’altro lato del Viale c’era il Palazzo degli Esami e questo dava l’idea del tragitto breve che poteva aspettarti dopo la laurea, all’epoca della scolarizzazione di massa.
Entravi a Via Induno per il concorso e, all’uscita, l’imponente palazzo Bazzani – dal nome dell’architetto che lo progettò a partire dal 1912 – con il suo volto bonariamente austero, era lì ad aspettarti. E anche se le cose non andavano proprio così, era così che desideravi potessero andare.
Già, ma chi lo pensava? Sicuramente la generazione nata nel lunghissimo dopoguerra che rifiutava culturalmente e anche politicamente l’idea di essere “burocrati”, come lo erano stati i predecessori, molti dei quali avevano percorso una lunga o breve carriera nell’era fascista.
L’essere in organico nei ministeri di una Repubblica ancora giovane ma già matura dava una spinta eccezionale ai propositi della mia generazione e alla voglia di interpretare un ruolo significativo in un’opera aperta.
La chiave per il copione era data dalla norma costituzionale che sancisce la necessità di assicurare, da parte degli uffici pubblici, «il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione». Un principio di indipendenza diretto a cambiare il dna dell’organizzazione degli uffici e quello di dirigenti e impiegati.
Quella generazione arrivava nel turbine di questo cambiamento, dato che la burocrazia bianca che aveva solo in parte sostituito, negli anni Cinquanta e Sessanta, quella nera aveva dimostrato significative incertezze nella fase del cambiamento.
Imparziali verso chi? Con chi? E, soprattutto, perché? dato che le nuove influenze politiche determinavano gestioni e carriere. Un apparato arretrato e servile per troppo tempo sembrava ancora riluttante a facilitare il cammino di uno Stato moderno.
Nell’immaginario sociale la burocrazia appariva come uno dei mali endemici dell’Italia, con la quantità e l’opacità delle procedure, con la sensibilità alle clientele politiche, con l’eccesso degli addetti, con l’indifferenza di fronte all’etica della responsabilità. E soprattutto con quella caratteristica, tutta italiana, pre e post fascista della doppia lealtà al partito (di turno) e allo Stato. Ma con il passare del tempo poi si è visto che quando la lealtà è doppia a prevalere è sempre la prima.
Da quegli anni molte cose sono cambiate profondamente e la divisione tra indirizzo politico e gestione amministrativa ha indubbiamente contribuito a spianare la strada ad apparati più efficienti, funzionali e trasparenti. Eppure i più critici ci avvertono che il Leviatano è solo addormentato, che è pronto a riprendersi il terreno perduto a riattivare i suoi tentacoli su appalti, concorsi, carriere e poltrone, insomma sulla vita del burocrate.
È la lotta di un Davide quasi inerme contro il potente Golia, che non finisce con la necessità storica della vittoria del primo, e soprattutto non finisce. Non è finita. La gestione e perfino l’organizzazione amministrativa, in realtà, è molto appetibile e se nel privato tra proprietà e management la connessione è evidente, ma con ruoli definiti, nel pubblico l’indirizzo politico è pervasivo e tende sempre più ad invadere il territorio gestionale, con evidenti danni per il buon andamento e l’imparzialità della P. A.
Gli anni Novanta, per quella generazione, annunciarono il segno del riscatto; Golia aveva vacillato sotto le fiondate di quei nuovi responsabili e la società stessa aveva tanta voglia di combattere almeno qualcuno di quei mali strutturali.
Per la scuola italiana, insomma, in quel fine secolo – a cento anni dalla invenzione dei Fratelli Lumière – entra una nuova luce (lumière) e matura una stagione di potente innovazione in favore del protagonismo delle scuole, nella consapevolezza che ogni iniziativa riformatrice dovesse comunque trovare fondamento su una rigorosa sostenibilità finanziaria. E, nel Palazzo di Viale Trastevere, nulla era più come prima: si erano aperti spazi per chi, dirigenti ministeriali e operatori a vario titolo nella scuola, erano decisi ad interpretare un ruolo adeguato ai tempi, alimentando quel processo evolutivo che investiva tutto il settore dell’istruzione e della formazione.
Un impareggiabile docente e saggista, mio amico, in ricordo di quelle generazioni a scuola e nelle stanze dei ministeri, un giorno mi disse: «Avevamo sferrato I quattrocento colpi di truffautiana memoria, all’insegna dell’innovazione didattica, perché leggevamo, studiavamo, andavamo ai concerti, ci infilavamo nei teatrini off, abitavamo nelle sale d’essai e nei cineclub, e, soprattutto, amavamo la scuola come luogo in cui veniva messo in scena un’epoca nuova». O perlomeno si proponeva una nouvelle vague.
Una stagione, a mio avviso, chiusasi all’inizio del XXI secolo, quando la vittoria del centro-destra inaugurò un periodo di restaurazione con la fulminea abrogazione di tutte le norme che ne avevano segnato il cambiamento; una stagione in cui la crescita dei livelli di istruzione in Italia non era più avvertita come una priorità per gli assetti culturali ed economici di una società post-industriale.
Se la stagione precedente aveva dimostrato come nello stabilire nuovi parametri per la sostenibilità della crescita risiedesse, a monte, la necessità di serie riforme del settore educativo, ora l’appiattimento sull’esigenza di riduzione dei costi oscurava ogni altra prospettiva. Il cono di luce sulla scuola era stato spento.
Le generazioni di burocrati, lo sappiamo, si succedono le une alle altre nel nome rassicurante della “continuità” ma, per fortuna o per accidente, elementi di discontinuità turbano la consuetudine e il placido galleggiare delle scrivanie.
E forse un po’ del merito di quella generazione Fin de siècle va attribuito al genius loci che sopravvive in quel Palazzo dal volto austero, nutrito, negli anni, dalle storie e dalle esperienze dei tanti personaggi che hanno animato quelle stanze. Un Palazzo così diverso e così uguale agli altri palazzi romani del Potere, dalla facciata con statue e gruppi scultorei caratteristica del gusto scenografico di Cesare Bazzani.
Le attuali innovazioni di Viale Trastevere, gli ennesimi proclami su fondamentali indicazioni nazionali, l’enfatizzazione del merito, i volti arcigni al posto di quelli quasi empatici, non sembrano più riguardare quella passata – in molti casi a miglior vita – generazione, ormai segnata dal disincanto pensionistico dello spettatore.
Uno spettatore, però, preoccupato per la spada di Damocle pendente sull’istituzione trasteverina: poiché il rischio di frammentare il sistema educativo in nome dell’autonomia differenziata è reale.
Infatti, la radicale normativa in fieri di attuazione dell’autonomia differenziata potrebbe condurre a una regionalizzazione dell’istruzione in Italia. In realtà, i primi tentativi in tale direzione vi sono stati, ma il limes della Corte Costituzionale ha respinto finora tali incursioni alle basi del sistema nazionale d’istruzione. Un sistema, va ricordato, unico a garantire «un’offerta formativa sostanzialmente uniforme sull’intero territorio nazionale e l’identità culturale del Paese, nel rispetto della libertà d’insegnamento».
Un’affermazione, questa della Corte, che può apparire, certo, di stampo novecentesco ma che, invece, tende a consolidare l’instabile patto sociale sull’educazione presente nel nostro Paese. “Affinché il nostro Antoine Doinel non scappi dalla scuola”, aggiungerebbe il mio amico esperto di cinema.