Venerdì ha preso il via l’operazione Rising Lion, una massiccia offensiva congiunta di Mossad e forze armate contro obiettivi militari e nucleari iraniani. Il successo dell’attacco, definito il più grave subito dall’Iran dal conflitto con l’Iraq, deve molto a una rete di basi clandestine insediate da anni all’interno del Paese
Secondo i media israeliani, operativi del Mossad hanno costruito diverse postazioni avanzate in località interne all’Iran già da alcuni anni, addirittura nelle vicinanze di Teheran. In quelle basi, rimaste sotto copertura per lungo tempo, venivano stoccate armi di precisione introdotte clandestinamente dal territorio israeliano. Alcuni commando operativi si sarebbero alternati in missioni di sorveglianza e preparazione dell’attacco, coprendo periodi di permanenza che in certi casi hanno superato i dodici mesi.
Venerdì, con una coordinazione perfetta tra servizi segreti e aviazione, è partita l’operazione Rising Lion (Leone in Ascesa). L’obiettivo era triplice: decapitare la leadership militare delle forze convenzionali (Artesh) e dei Guardiani della Rivoluzione (IRGC); abbattere la capacità difensiva dell’Iran, in particolare i sistemi di difesa aerea; distruggere le infrastrutture legate al programma nucleare. Prima dell’onda d’urto aerea, piccoli gruppi del Mossad hanno colpito con missili di precisione le batterie di SAM (surface-to-air missile) in punti chiave, aprendo la strada ai caccia dell’aeronautica israeliana. Oltre 200 jet hanno quindi sfondato le linee difensive senza incontrare significativa resistenza.
Grazie a intercettazioni dei piani d’ingaggio predisposti dall’alto comando iraniano, il Mossad ha individuato l’ubicazione di un rifugio sotterraneo progettato per ospitare il generale di divisione dell’Artesh e i comandanti Pasdaran. Missili tattici israeliani lo hanno centrato nei primi minuti dell’attacco, causando la morte di almeno ventiquattro ufficiali di alto rango, inclusi i responsabili della difesa aerea e della logistica strategica.
L’ampiezza e la precisione degli strike sono state definite dall’Associated Press come “le più devastanti subite dall’Iran dal conflitto Iran-Iraq negli anni Ottanta”. Se confermato, il bilancio d’attacco potrebbe ridisegnare gli equilibri regionali, indebolendo significativamente il deterrente militare dell’Iran e ponendo nuove sfide alla comunità internazionale nel gestire la già fragile stabilità mediorientale.
In generale, l’operazione ha visto il trionfo dell’intelligenza su qualsiasi forma di forza bruta: un modello che, secondo gli analisti, potrebbe diventare esportabile altrove: human intelligence, con la conoscenza puntuale delle abitudini, delle vie di fuga e dei protocolli di sicurezza dei target ad alto valore; signals intelligence, con la saturazione radar e jamming tattico che hanno isolato le comunicazioni iraniane; geospatial intelligence e imagery intelligence, con coordinazione satellitare, intelligenza artificiale e analisti per il targeting in tempo reale, sfruttando finestre di vulnerabilità come fasi di ritiro o routine ripetute. Tutto nei tempi giusti (blackout coordinato dei sistemi di allarme e strike chirurgici sui nodi di comando, con un effetto domino nel collasso della rete operativa) e con un impatto psicologico importante (silenzio prolungato, risposte disarticolate, diffidenza interna e purghe preventive tra i ranghi).