Stante la debolezza navale iraniana e i vincoli geopolitici, analizzando la situazione politico-strategica e tattico-militare, l’Iran non ha le capacità di poter chiudere Hormuz, lo stretto del petrolio nel Golfo Persico. Ecco perché nell’analisi di Vas Shenoy
Nel pieno della tensione tra Israele e Iran, alimentata dagli ultimi attacchi aerei americani contro siti nucleari iraniani, molti analisti e osservatori evocano lo spettro di un’escalation più ampia. Tra i possibili scenari ventilati figura puntualmente il blocco dello Stretto di Hormuz, passaggio cruciale da cui transita circa un quinto del petrolio mondiale. Ma l’idea che l’Iran possa realmente attuare una chiusura efficace e duratura di questa rotta strategica è più un mito propagandistico che una prospettiva concreta.
Sul piano politico, la Repubblica Islamica si trova intrappolata in una rete di vincoli e necessità che rendono l’opzione del blocco quasi suicida. Il primo freno è la Cina. Pechino importa oltre 10 milioni di barili di petrolio al giorno che attrevera Hormuz, e circa la metà dell’energia che passa dallo Stretto. Qualunque interruzione costituirebbe un disastro economico non solo per l’Asia, ma anche per le casse iraniane, che dipendono dalle esportazioni verso la Cina più di ogni altra cosa. In questo senso, l’Iran sa che non può permettersi di perdere il suo principale partner commerciale, e che una mossa tanto estrema sarebbe vista a Pechino come un atto di auto-sabotaggio inaccettabile.
A ciò si aggiunge la nuova postura della leadership pakistana. La recente visita del comandante dell’esercito pakistano, il generale Munir, alla Casa Bianca ha segnato un riallineamento strategico che taglia fuori Teheran da qualunque aspettativa di supporto orientale. Islamabad, nonostante i suoi legami con Pechino, non metterà mai a rischio il rapporto con Washington per correre in soccorso dell’Iran in un conflitto navale. L’isolamento regionale di Teheran è oggi più marcato che mai.
Ma la questione più determinante resta quella militare. Nonostante gli sforzi compiuti dopo la Rivoluzione del 1979 per costruire una marina autonoma e strutturata, la realtà è che l’Iran non dispone di una flotta in grado di sostenere un confronto diretto con la presenza navale statunitense nel Golfo. Secondo il Global Firepower Index 2024, la marina iraniana si piazza solo al 37° posto a livello mondiale. Una posizione che riflette una forza navale a medio raggio, utile per proiezioni regionali o missioni simboliche — come l’arrivo nel 2023 alla Magellano — ma del tutto insufficiente per mantenere un blocco contro la più potente macchina militare del pianeta.
L’Iran ha costruito due forze navali parallele: la marina regolare (Irin) e quella dei Guardiani della Rivoluzione (IRGCN). La prima dispone di fregate, sottomarini diesel, e alcuni cacciatorpediniere; la seconda si affida alla cosiddetta guerra asimmetrica, con motoscafi rapidi, mine, e attacchi improvvisi. Questa divisione permette grande flessibilità tattica ma manca di profondità strategica. Nessuna delle due forze può opporsi all’imponente presenza americana nel Golfo, dove la Quinta Flotta mantiene basi stabili, sistemi radar avanzati, sottomarini nucleari e navi Aegis.
I sottomarini iraniani — in particolare le classi Tareq, Fatih e Ghadir — rappresentano un deterrente silenzioso, ma limitato. Sono efficaci per la sorveglianza costiera e la difesa territoriale, non per missioni d’interdizione su vasta scala. Mancano di propulsione indipendente dall’aria (AIP), il che ne limita l’autonomia. Anche i moderni missili da crociera installati su piccole piattaforme non rappresentano una minaccia risolutiva contro portaerei o incrociatori statunitensi dotati di sistemi antimissile.
Nel 2011 e in altre occasioni, Teheran ha minacciato il blocco dello Stretto, e in alcuni casi ha addirittura posizionato mine o simulato esercitazioni navali aggressive. Tuttavia, ogni volta si è trattato più di dimostrazioni muscolari interne o di pressioni diplomatiche che di azioni concrete. Gli Stati Uniti, grazie alla loro superiorità navale e tecnologica, hanno sempre disinnescato tali provocazioni prima che potessero degenerare.
Oggi, un’azione simile da parte dell’Iran non solo innescherebbe una risposta immediata da parte della marina americana — che considera il libero transito attraverso Hormuz un interesse vitale — ma offrirebbe anche un pretesto formale a Washington per colpire direttamente le forze navali iraniane, anche a livello strategico.
La lezione è chiara: nonostante la retorica, le capacità dell’Iran non gli permettono di mantenere un blocco navale del genere, né politicamente, né militarmente. Il regime a Teheran può minacciare, può alzare la voce, ma sa bene che qualsiasi tentativo concreto di chiudere lo Stretto segnerebbe l’inizio della propria disfatta — in mare e forse anche a casa.
In definitiva, il vero deterrente che tiene aperto Hormuz non è il buon senso di Teheran, ma il peso geopolitico di Pechino, l’isolamento diplomatico dell’Iran e, soprattutto, l’inarrestabile macchina navale degli Stati Uniti.