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Riconversione, dual use e produzione. Il modello Fincantieri per l’industria della Difesa

La spesa europea e atlantica per la difesa sta rimodellando le dottrine militari e i bilanci economici degli Stati occidentali. Esempio cardine del riorientamento strategico dei settori pubblici e privati verso la Difesa è Fincantieri, pronto a riconvertire cantieri navali civili in poli esclusivi per la produzione militare, ottimizzando capacità industriali e di dual use, rafforzando la presenza strategica nel settore

Per la prima volta da decenni l’Occidente sta intraprendendo un massiccio riarmo. Le guerre in Ucraina e in Medio Oriente, le attività belliche proxy, i perpetui – e latenti – conflitti ibridi, la minaccia di un possibile instabilità su Taiwan e una ristrutturazione della proiezione globale americana hanno reso il rafforzamento della difesa nazionale, per i Paesi Nato ed europei, una priorità urgente. Durante il Summit Nato, gli Alleati hanno concordato di aumentare il loro obiettivo di spesa militare al 3,5% del Pil e di stanziare un ulteriore 1,5% per voci relative alla sicurezza, raggiungendo così il 5% complessivo entro il 2035. Si tratta di una trasformazione senza precedenti che porterà, secondo l’Economist, a un incremento della spesa annua di circa 800 miliardi di dollari rispetto ai livelli precedenti all’invasione russa dell’Ucraina. Questo impulso, però, solleva interrogativi profondi sull’equilibrio tra sicurezza, efficienza industriale ed equità sociale, trasformando non solo le dottrine militari, ma anche l’assetto produttivo e il modello economico occidentale.

Come la guerra modella l’economia nazionale e globale 

La guerra trasforma le economie. L’improvvisa e urgente necessità di produrre armi più numerose e migliori contribuisce a far nascere nuove industrie dall’oggi al domani. La pressione distoglie gran parte del lavoro e del capitale di un Paese, costringendo le aziende manifatturiere a operare in modi nuovi. E l’innovazione industriale sta trasformando profondamente la natura del campo di battaglia. Nel 2022, la Marina ucraina disponeva di una sola grande unità navale, del tutto inadeguata a fronteggiare la superiorità della flotta russa nel Mar Nero. Mancavano le risorse, il tempo e la capacità industriale per avviare la costruzione di nuove fregate o cacciatorpediniere. Eppure, l’Ucraina è riuscita a ribaltare parzialmente la situazione grazie a una soluzione asimmetrica: l’impiego di droni navali artigianali, che hanno colpito in modo efficace le navi russe, costringendo molte di esse a ritirarsi in porti più lontani e sicuri. Anche negli Stati Uniti la configurazione dell’apparato industriale della difesa ha subito profondi mutamenti. Pur detenendo ancora il 43% del valore globale delle esportazioni di armamenti, a fronte del 6% della Cina, l’industria americana non ha più la capacità produttiva in massa che la caratterizzava tra gli anni Quaranta e Sessanta. Investimenti così ingenti potrebbero produrre impatti sull’economia globale, con effetti di pressione sulle finanze pubbliche e sui bilanci ma, allo stesso tempo, generando grandi quantità di nuovi posti di lavoro. Altri effetti, come la ricerca e sviluppo nel settore della difesa punteranno alla ricerca dell’innovazione, stimolando il finanziamento di questa attraverso fondi pubblici e privati.

Uno dei principali ostacoli alla razionalizzazione della spesa per la difesa in Europa è l’eccessiva frammentazione industriale tra i Paesi membri. L’attitudine a privilegiare l’autonomia produttiva nazionale ha portato a una sovrapposizione inefficiente di capacità e sistemi. Un esempio emblematico: gli Stati Uniti impiegano un solo modello di carro armato, mentre gli Stati membri dell’Unione Europea ne utilizzano ben dodici. Questa duplicazione comporta non solo uno spreco di risorse, ma ostacola anche l’interoperabilità tra le forze armate europee, minando l’efficacia operativa congiunta. La sicurezza dei cittadini rappresenta, in chiave hobbesiana, la responsabilità fondamentale e costitutiva degli Stati, imponendo oggi agli Stati europei sia un uso rigoroso ed efficiente dei fondi destinati alla difesa, sia il supporto dell’opinione pubblica nazionale riguardo l’urgenza strategica e securitaria degli investimenti sulla Difesa. 

Non occorre reindustrializzare. Fincantieri guida la corsa alla Difesa

Il caso di Fincantieri è esemplare per capire come il riarmo stia rimodellando la strategia industriale europea. “Possiamo facilmente aumentare la capacità militare e semplicemente riallocare la capacità produttiva civile esistente altrove nel nostro vasto sistema”, ha affermato l’ad Pierroberto Folgiero in una intervista a Bloomberg, riguardo le strategie per il cambiamento della postura aziendale verso un assetto militare e di difesa.

Il gruppo triestino, controllato dallo Stato, ha annunciato una concentrazione della produzione militare in alcuni cantieri italiani, con l’obiettivo di potenziare l’offerta di navi da guerra. I siti di Castellammare di Stabia e Palermo, attualmente misti, potrebbero essere destinati interamente alla cantieristica militare, mentre parte della produzione civile sarà riallocata all’estero, in Romania (per l’acciaio) e in Vietnam (per navi specializzate).

Fincantieri mira a intercettare fino a 20 miliardi di euro del nuovo flusso di spesa, con l’obiettivo di portare la componente militare al 30% dei ricavi entro il 2027, contro il 20% del 2023.

L’azienda prevede inoltre un’espansione nelle tecnologie subacquee, con una nuova divisione dedicata ai droni sottomarini, e non esclude operazioni di acquisizione, tra cui il possibile interesse per l’unità navale di Thyssenkrupp. Il riarmo coinvolge anche altre industrie adiacenti: in Europa gruppi come Renault, Daimler Truck e Heidelberger Druckmaschinen stanno esplorando riconversioni parziali verso la difesa. Ma si tratta di transizioni complesse, che richiederanno tempo e investimenti specifici. La crescita delle azioni di Fincantieri, quintuplicate dal 2022, mostra comunque il potenziale di questo riassetto industriale.

L’idea che la capacità produttiva sia un fattore determinante nei conflitti prolungati spinge molti governi a rafforzare settori strategici, pur in un contesto radicalmente diverso da quello delle guerre del Novecento. Infatti, oggi la superiorità non dipende solo dalla quantità, ma dalla velocità e qualità dell’innovazione. L’industria bellica americana, (che oggi prevede di aggiungere 100 nuove unità navali per la propria difesa, con l’ausilio di Fincantieri), pur rappresentando ancora il 43% del valore globale delle esportazioni militari, è molto più snella rispetto al passato: produce pochi sistemi altamente sofisticati, con lunghi tempi di realizzazione e forti vincoli di sostituzione.

Il numero di aerei dell’aeronautica Usa è sceso dai 26mila del 1956 a meno di 5mila previsti per il 2025. I nuovi caccia di sesta generazione, capaci di coordinare sciami di droni, potrebbero costare fino a 300 milioni di dollari ciascuno, e saranno acquistati in quantità ridotte. Le industrie della difesa si sono consolidate: dalle 42.mila del 2000, oggi ne restano solo 29mila. La conseguenza è una catena produttiva rigida, poco scalabile in tempi brevi: basti pensare che serviranno almeno sette anni per riportare le scorte di munizioni americane ai livelli pre-Ucraina. Questo scenario impone una riflessione strategica di lungo periodo. Le guerre moderne e quelle future saranno vinte da chi saprà coniugare capacità industriale, adattabilità tecnologica e rapidità operativa. L’esperienza ucraina dimostra che anche attori con capacità limitate possono produrre effetti militari rilevanti attraverso soluzioni innovative e a basso costo.

La vera sfida per l’Occidente non sarà, dunque, solamente spendere di più, ma spendere meglio, costruendo un ecosistema industriale e tecnologico resiliente, efficiente ed efficacemente interoperabile. Il riarmo è iniziato, ma la corsa non sarà vinta da chi parte più forte, bensì da chi saprà cogliere i cambiamenti, adattandosi a questi e trasformandosi più in fretta.

 


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