Il presidente Trump ha parlato di una possibile mediazione russa tra Israele e Iran. Ma per Mosca il conflitto tra Tel Aviv e Teheran rappresenta un’opportunità. Almeno nel breve termine
Intervenendo sulla questione dell’escalation in corso in Medio Oriente, il Presidente statunitense Donald Trump ha affermato il suo ottimismo relativo al fatto che presto Israele e Iran raggiungeranno un accordo di pace (in netto contrasto rispetto alla linea adottata dal leader israeliano Benjamin Netanyahu, il quale ha affermato che le ostilità si sarebbero anzi intensificate col passare dei giorni), aggiungendo che il Presidente russo Vladimir Putin avrebbe potuto assumere il ruolo di mediatore tra i due Paesi in conflitto. “È pronto. Mi ha chiamato per questo”, ha detto Trump a proposito di Putin, riferendosi alla conversazione telefonica avvenuta tra i due leader lo scorso sabato. “Ne abbiamo parlato a lungo. Abbiamo parlato di questo più che della sua situazione. È una cosa che credo si risolverà”.
Un’ipotesi che però non sembra particolarmente realistica. Da una parte, essendo impegnato in un conflitto che si protrae da più di tre anni, Putin non sembra avere lo standing necessario per promuovere dei negoziati, soprattutto alla luce della sua reticenza a condurre un processo negoziale in modo costruttivo e non puramente strumentale; dall’altra, seppur l’Iran sia un Paese partner che Mosca non vuole assolutamente perdere, il proseguire delle ostilità nel breve termine potrebbe comportare dei vantaggi, almeno due, per il Cremlino. Uno è di carattere politico/comunicativo, e riguarda lo spostamento dell’attenzione mediatica dal conflitto in Ucraina a quello in corso in Medio Oriente. L’altro riguarda l’aspetto economico, e in particolare un asset estremamente importante per il sistema russo: il petrolio.
Immediatamente dopo gli attacchi di Israele alle strutture nucleari iraniane, prezzi del petrolio sono saliti fino al 12%. Nel fine settimana, il conflitto si è ulteriormente inasprito con Israele che ha colpito, tra gli altri obiettivi, un importante terminale petrolifero a Teheran. L’Iran produce circa 3,3 milioni di barili al giorno di greggio, di cui due milioni vengono esportati.
Considerando che la domanda globale di petrolio è stimata a 103,9 milioni di barili giornalieri dall’Agenzia Internazionale dell’Energia, e che l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono in grado di aumentare rapidamente la produzione di oltre 3,5 milioni di barili al girono (andando così a compensare l’export iraniano), una grave interruzione della produzione iraniana è probabilmente gestibile. Guardando in prospettiva storica, tutte le crisi relative al Medio Oriente dagli anni ’80 in poi hanno visto un rapido aumento dei prezzi del petrolio nell’immediato, aumento che però è stato riassorbito dai mercati nelle settimane successive. L’aumento del prezzo del petrolio dopo i primi attacchi israeliani delle scorse ore rifletteva le preoccupazioni più ampie che il conflitto potesse degenerare fino al punto in cui Teheran tentasse di chiudere lo Stretto di Hormuz alle petroliere (anche se alcuni attori commerciali hanno già annunciato la sospensione delle attività nell’area), o addirittura di attaccare gli impianti petroliferi dei suoi vicini.
Tuttavia, anche nel breve periodo l’aumento dei prezzi del petrolio potrebbe rappresentare un prezioso sostegno alla macchina bellica russa. Lo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha lanciato l’allarme riguardo a questa eventualità nei giorni scorsi, affermando che avrebbe discusso della questione con il Presidente Trump. Sempre con Trump, Zelensky ha detto di voler discutere anche la preoccupazione che gli aiuti militari statunitensi possano essere dirottati dall’Ucraina verso Israele durante le nuove tensioni in Medio Oriente. “Vorremmo che gli aiuti all’Ucraina non diminuissero per questo motivo”, ha detto, “L’ultima volta, questo è stato un fattore che ha rallentato gli aiuti all’Ucraina”.
Ma anche in quest’ultima escalation ci sono già state evoluzioni in questo senso: la scorsa settimana gli Stati Uniti hanno dirottato verso le proprie basi in Medio Oriente alcuni sistemi antidrone originariamente destinati a Kyiv, che li avrebbe impiegati per difendersi dagli attacchi degli Shahed russi, sia al fronte che nei centri abitati. Un’evoluzione, anche questa, che ha portato solo vantaggi a Mosca.