Siamo davanti al paradosso che per volontà politica (votare sì, no o astenersi) si arrivi ad effetti ben più complessi a cui, probabilmente, non ha pensato né chi ha esortato al voto né chi ha cercato di dissuadere dallo stesso, né chi ha ritirato o meno le schede per votare. L’intervento di Gabriele Arcuri
Non votare a un referendum abrogativo che costituzionalmente prevede un quorum è una chiara manifestazione dell’esercizio di un diritto politico, oltre che di un diritto costituzionalmente garantito. È uno di quei pochi casi, forse l’unico, in cui l’astensione non equivale a delegare la scelta ad altri; monito che spesso si usa per spronare tutti a recarsi alle urne. Astenersi, questa volta, come ogni altra volta in cui si è votato per un referendum abrogativo (diverso dal referendum costituzionale che non prevede quorum), equivale ad esprimere una chiara ed inequivocabile posizione politica. Negare tale verità o criticarla, al contrario, equivale a negare principi cardine del nostro sistema, probabilmente più preziosi dell’esercizio del diritto di voto in quanto tale.
Ciò detto, resta una amara verità giuridica ed è che oggi le stesse norme per le quali migliaia di cittadini hanno richiesto l’abrogazione e milioni di cittadini hanno aderito a tale richiesta votando il referendum, rischiano di “pesare” più di prima. Già, perché le norme cosiddette referendate, ovvero uscite indenni da un referendum abrogativo, secondo autorevoli costituzionalisti, acquistano un vigore addirittura maggiore di quello che avevano prima del vaglio referendario.
Se, infatti, una legge supera l’iter parlamentare di approvazione, sulla base di una delega politica espressa dall’elettorato nell’ambito delle elezioni politiche, una norma uscita indenne da un referendum abrogativo riceverebbe una sorta di “bollinatura” diretta del popolo e questo la potrebbe rendere addirittura più forte. Merita, dunque, di tornare attuale un discorso che ho sentito fare ogni volta che un quorum non viene raggiunto; lo strumento referendario non può valere per tutto.
In un Paese in cui ormai a stento si supera il 60% dei votanti alle politiche o alle europee, il referendum abrogativo (che prevede un quorum al 50% più uno degli aventi diritto di voto) è o dovrebbe essere uno strumento atto a richiamare l’elettorato ad esprimersi su temi facili e sopratutto di interesse comune. Si ricordi il referendum sull’aborto o quello sul divorzio, entrambi partecipati plebiscitariamente. Suscitare interesse nell’uomo della strada su temi complessi come quelli da ultimo sottoposti al vaglio referendario è difficilissimo, se non impossibile. E per questo il risultato è avere leggi referendate che, da questa sera, godranno anche del visto popolare.
Siamo, quindi, davanti al paradosso che per volontà politica (votare sì, no o astenersi) si arrivi ad effetti ben più complessi a cui, probabilmente, non ha pensato né chi ha esortato al voto né chi ha cercato di dissuadere dallo stesso, né chi ha ritirato o meno le schede per votare.