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Dall’Ucraina al Medio Oriente. L’agonia della diplomazia raccontata dall’amb. Starace

Di Giorgio Starace

In un’era in cui le decisioni vengono adottate velocemente e le guerre costituiscono anche ottimi pretesti per giustificare precari risultati in ambito economico in Occidente, la diplomazia non trova spazi. L’opinione di Giorgio Starace, già ambasciatore d’Italia negli Emirati Arabi Uniti, in Giappone e in Russia, autore del libro “La pace difficile – Diari di un Ambasciatore a Mosca” (Mauro Pagliai Editore, 2025)

Gli ultimi sviluppi in Ucraina, in Medio Oriente e Iran ci dimostrano in modo dolorosamente chiaro che la politica estera è sempre più appannaggio di politici senza scrupoli, di osservatori ed esponenti dei media, di gruppi di interesse economico, tutti proiettati in una spettacolarizzazione delle tensioni internazionali basata su annunci a effetto, analisi frettolose, decisioni unilaterali, violazioni di consolidate consuetudini che avevano regolato i rapporti tra gli Stati. Erano le regole che costituivano l’humus di quel “multilateralismo efficace” che in qualche modo era riuscito a evitare conflitti di una certa portata nel continente europeo con l’eccezione della lunga e dolorosa guerra dei Balcani.

I leader sono ora costretti a ricorrere con frequenza ai social media. Lo fa quasi quotidianamente il presidente statunitense Donald Trump e in Occidente nessuno è esente da questa comunicazione quasi quotidiana che rende frammentaria, caotica e incerta la conduzione della politica estera. Le autocrazie, dalla Russia di Vladimir Putin alla Cina di Xi Jinping e, in qualche misura, alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan, preparano con cura le esternazioni dei leader e le accompagnano con le consuete veline di propaganda aventi l’obiettivo di rendere efficaci le iniziative in ambito internazionale. Da noi la politica estera si è “democratizzata”. Non è più appannaggio degli addetti ai lavori, dei diplomatici che preparavano in anticipo interventi e dossier per i politici e poi, dopo incontri e colloqui, curavano i seguiti con gli omologhi degli altri Paesi. Era una gestione “noiosa” a volte ripetitiva della politica estera che però seguiva dei codici di comportamento precisi e assicurava il raggiungimento di compromessi ed accordi tra gli Stati. Gli obiettivi erano sempre gli stessi: evitare le sorprese, tentare di governare i processi riducendo fin dove possibile gli elementi di tensione nelle relazioni internazionali.

Ma non è solo la spettacolarizzazione della politica estera ad aver compromesso gli oliati meccanismi del multilateralismo efficace. Tutto è andato compromettendosi a partire dal continente europeo con la fine della “luna di miele“ tra l’Occidente e la Russia e l’avvio di una lunga sequenza di iniziative politiche e militari unilaterali da una parte e dall’altra che hanno creato tensioni, sfiducia reciproca, polarizzazioni tra le parti. Dal primo allargamento della Nato a Est approvato dal vertice del 1997, al bombardamento di Belgrado nel 1999, alla seconda guerra del Golfo nel 2003 con al deposizione di Saddam Hussein, storico alleato di Mosca, al secondo allargamento Nato a Est nel 2004. Putin, in sella al Cremlino nel 2000, nel 2007 alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco reagì con toni per la prima volta durissimi, denunciando l’unilateralismo militare di Washington e degli alleati occidentali e poi, l’anno successivo, lanciò l’invasione della Georgia, con il pretesto del soccorso alle popolazioni di lingua russa nell’Ossezia meridionale.

Nel 2011 venne attaccata dagli Stati Uniti e dagli alleati europei la Libia e ucciso Muhammar Gheddafi, un altro importante partner di Mosca e – ci piaccia o no – interlocutore essenziale dell’Italia in Nordafrica. Nel 2013 al vertice G8 di Lough Erne in Irlanda del Nord emerse il duro contrasto tra Putin e i leader occidentali sulla Siria. Questa volta la Russia non era disponibile a perdere Bashar al-Assad – un altro rais di riferimento in Medio Oriente – e nel 2015 intervenne militarmente a supporto del regime di Damasco ma già nel 2014, a seguito dell’occupazione e annessione russa della Crimea, Mosca era stata “sospesa” dal formato G8. E poi l’attacco nel 2022 all’Ucraina.

Gli accordi di Minsk, sottoscritti nel febbraio 2015 dai capi di Stato di Ucraina, Russia, Francia e Germania e che avrebbero dovuto porre fine alle tensioni tra le parti in Donbass, non potevano evidentemente sopravvivere al clima di crescente tensione e reciproca diffidenza tra Occidente e Russia, risultato di tutti questi episodi di cieco unilateralismo militare e politico di entrambe le parti. È saltato l’equilibrio in Europa conseguito faticosamente con il trattato di Helsinki del 1975 e i numerosi round negoziali successivi ma, con la fine di Helsinki, è anche venuta meno quella grande rete di contatti, di fori di confronto internazionale in cui la diplomazia appartenente a diverse aree del mondo si confrontava e manteneva vivo comunque un dialogo. L’esempio più evidente sono le Nazioni Unite, dove le battaglie in Consiglio di Sicurezza e anche in seno all’Assemblea generale costituivano in un recente passato la norma e ne testimoniavano anche l’importanza in ambito internazionale. Il lavoro diplomatico a New York non ha più la rilevanza politica e mediatica di prima. L’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, con sede a Vienna, foro di dialogo prezioso tra i cinquantasette Stati membri (compresa la Russia) sulle tematiche della sicurezza regionale e la promozione della pace nel vecchio continente sopravvive ma non riceve l’attenzione politica che meriterebbe, in particolare da parte cancellerie delle principali capitali europee. Conflitti e bilateralizzazioni dei rapporti tra gli Stati sono il sale dei leader di oggi. Tutto è molto meglio vendibile sui media e sui social rispetto a noiosi vertici multilaterali e quindi assistiamo a manifestazioni di potere in cui Trump – ripreso seduto nello Studio Ovale mentre firma fascicoli di decreti ed è vegliato dal vicepresidente JD Vance e dal segretario di Stato Marco Rubio che lo affiancano in piedi – poco si differenzia dalle immagini che trasmettono Putin o Erdogan o il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu dai loro palazzi. Leader e media si alimentano a vicenda e prevalgono le radicalizzazioni di toni che fanno notizia e in qualche modo sollecitano la vanità degli uomini che sono alla guida del mondo. Le decisioni vengono adottate velocemente e le guerre costituiscono anche ottimi pretesti per giustificare precari risultati in ambito economico in Occidente e repressione del dissenso e controllo sociale nelle autocrazie. Si fa spazio l’economia di guerra, con tutte le sue potenti lobby e gli appartati di sicurezza che se ne avvantaggiano sul piano finanziario e politico sia in Russia che in Occidente che in altre aree del mondo.

Quando ero in servizio come ambasciatore d’Italia a Mosca, nel febbraio del 2023, a un anno dallo scoppio delle ostilità, la Cina presentò una proposta di pace in 12 punti per la soluzione della crisi. Era un documento che elencava una serie di principi fondamentali tra cui il rispetto della sovranità degli Stati, l’abbandono della mentalità della guerra fredda, la cessazione immediata delle ostilità, la ripresa di colloqui di pace, la soluzione della crisi umanitaria, la protezione dei civili e dei prigionieri di guerra, la messa in sicurezza delle centrali nucleari, la riduzione dei rischi strategici, la facilitazione delle esportazioni di grano, lo stop alle sanzioni unilaterali, il mantenimento delle catene industriali e di approvvigionamento, la promozione della ricostruzione bellica. Il documento venne accompagnato da contatti della diplomazia cinese con le principali capitali (inclusa Mosca e Kyiv) e da iniziative in prima persona del ministro degli esteri Wang Yi. Il testo ricevette il cauto interesse di Kyiv e Mosca e la bocciatura quasi immediata di Londra, di Bruxelles, delle principali capitali europee e di Washington. Metto le capitali in quest’ordine perché una volta di più erano a Londra i principali detrattori di possibili iniziative di pace. Ricordo che in quel periodo prosperavano in particolare nella capitale britannica le analisi che prevedevano una possibile “sconfitta strategica” della Russia con inevitabile caduta del regime di Putin. Il piano cinese veniva criticato sia per l’assenza di un capitolo dedicato al ritiro incondizionato delle truppe di occupazione russe dai confini ucraini, sia perché la Cina non poteva essere considerata dall’Occidente “super partes” e quindi le sue proposte non potevano che andare incontro unicamente alle esigenze di Putin. Trovai entrambi i rilievi fuori luogo: il testo prevedeva la cessazione delle ostilità e il riavvio di negoziati di pace. Non si esprimeva sul ritiro o meno delle truppe russe dal suolo ucraino che sarebbe ovviamente stato materia dei negoziati di pace. La Cina è un membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In un’altra epoca, quella del multilateralismo efficace, una proposta cinese per la soluzione di una grave crisi politica e militare nel continente europeo avrebbe suscitato discussioni, analisi, forse negoziati ma non una bocciatura pregiudiziale. Ma si era deciso di andare allo scontro. Si era deciso per il non dialogo in maniera irragionevole e in omaggio a quel bilateralismo inefficace che non ha risolto in alcun modo questa crisi, ha permesso a Putin di trasformare la sua propaganda da crociata contro il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e quelli che lui chiama “nazisti” a crociata contro l’”Occidente collettivo”, solleticando il vittimismo latente della società civile russa (“Noi contro tutti”), ha consentito la prosecuzione di una guerra che ha causato un enorme numero di vittime civili e militari, scavato un solco tra le parti e aggravato la situazione economica di Russia, dell’Ucraina e dei principali Paesi europei.

L’allora presidente statunitense Joe Biden e i governi dei Paesi Nato, escludendo ogni possibile considerazione per il piano cinese per asserita parzialità nel conflitto tra Russia e Ucraina, implicitamente si tiravano indietro rispetto a qualsiasi ipotesi di proposte diplomatiche dell’Occidente per un cessate il fuoco e la ripresa di un negoziato tra le parti e sceglievano quindi nuovamente l’opzione militare dopo il tentativo abortito di Erdogan nel negoziato di Istanbul della primavera 2022. Un altro eclatante esempio di rinuncia allo strumento della diplomazia. Avevo in quei giorni manifestato sia a Roma sia con i colleghi delle ambasciate occidentali l’importanza da me attribuita al tentativo cinese che, sicuramente non poteva considerarsi completo, ma poteva costituire un un’utile base di discussione tra le parti sia perché Zelensky aveva inizialmente reagito con cauto interesse, sia perché i russi non avevano la possibilità “politica” di rifiutarlo a priori rischiando di mettendosi in contrasto con la Cina. Avevo preso contatto con esponenti di primo piano del ministero degli Esteri russo e del Cremlino per sondare le reazioni russe al piano cinese. Avevo avvertito in qualche modo una certa freddezza che si celava dietro alle scontate manifestazioni di cortesia e attenzione nei confronti di Pechino. Alcuni davano per scontata la bocciatura da parte dell’Occidente ma era come se questo poi coincidesse con gli interessi del Cremlino: Putin non gradiva un’eventuale dialogo tra Biden e Xi sull’Ucraina e possibili intese sulla sua testa di un direttorio da cui la Russia sarebbe stata inevitabilmente esclusa. Ma Biden rispose bocciando la proposta e in qualche modo rispondendo positivamente alle attese di Putin. Non se ne fece niente nell’indifferenza e inerzia delle cancellerie dei principali Paesi europei.

Da Bruxelles, l’Alto rappresentante dell’Unione europea Josep Borrell tuonava contro la Russia e spingeva per l’approvazione di pacchetti di sanzioni e per il sostegno politico e militare di Kyiv, ma non ci si poteva attendere parallele idee e proposte per un cessate il fuoco e l’avvio di negoziati urgenti da parte delle istituzioni comunitarie se i principali governi dell’Unione non si facevano portatori di indirizzi di politica estera che marcassero una minima indipendenza di indirizzo rispetto a Washington.

Papa Francesco e poi Trump hanno rotto questo equilibrio. Hanno “lanciato il sasso nello stagno”. Attirandosi le critiche di quanti hanno spettacolarizzato la tragica aggressione di Putin in risse televisive e sui social media, papa Francesco ha avviato contatti con Kyiv ma anche con Mosca inviando il cardinale Matteo Maria Zuppi in missione e mostrando di aver capito – per primo – che con un rovinoso conflitto in corso è miope e ingiustificato rinunciare a priori a ogni mezzo diplomatico per riannodare il dialogo tra le parti. Lo stesso ha fatto il presidente Trump a pochi giorni dal suo insediamento, dichiarando che ovviamente si negozia con entrambe le parti (aggressore e aggredito) e nominando un suo inviato speciale per la crisi ucraina (Keith Kellogg) che ha già visitato diverse volte Mosca, Kyiv e le principali capitali europee. Dopo 3 anni e mezzo di un inutile massacro che causato un elevato numero di vittime tra ucraini e russi e tra le nostre coscienze di europei, forse si sta iniziando a porre fine al graduale processo di necrosi della diplomazia con particolare riferimento al continente europeo. Il presidente francese Emmanuel Macron, dopo le iniziative di Trump e tre anni e mezzo di silenzio, ha finalmente rotto gli indugi, ha avuto una conversazione telefonica di due ore con Putin e poi ha chiamato Zelensky.

A lui il merito di aver finalmente avuto il coraggio di riprendere un’iniziativa politica e auspicabilmente diplomatica anche in Europa.

Dopo la scontata offensiva estiva dell’esercito russo, se l’Europa e Trump avranno la volontà e la capacità di sostenere l’Ucraina nella difficile difesa delle città e dei territori ora sotto l’assedio, Mosca e Kyiv potrebbero realisticamente riaprire una fase più concreta di trattative per una soluzione della crisi e le capitali europee, questa volta, non dovranno tirarsi indietro.


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