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La fine di Stefano Giovannone, l’agente “Maestro”. Il racconto di Vento

Di Andrea Vento

L’imposizione del segreto di Stato dopo la sua scomparsa ha contribuito a perpetuare il mito e il sospetto intorno a uno dei più abili – e controversi – artigiani dell’intelligence italiana. Se meritorio è stato lo sforzo del Governo Meloni di svelare alcune coltri del mistero, gli storici attendono un atto ancora più rivelatorio, con particolare attenzione alla vicenda Toni – De Palo

Un addio silenzioso

La sera del 17 luglio 1985, quaranta anni fa, in un appartamento anonimo di Roma, si spense uno degli uomini più enigmatici e influenti dell’intelligence italiana: Stefano Giovannone, colonnello dei carabinieri, capocentro del Sid e poi del Sismi a Beirut. Da mesi era ai domiciliari nella propria residenza di via Pineta Sacchetti, col corpo segnato da una malattia implacabile. Nessun colpo di scena quindi, nessuna mano omicida: fu il tumore a scrivere il suo epilogo, mentre attorno a lui infuriavano tempeste giudiziarie e segreti di Stato che avrebbero stregato qualunque giallista. Un uomo spezzato sotto la sorveglianza dello Stato che aveva servito.

Un contesto sospeso tra ombre e segreti

Negli ultimi anni della sua vita di servitore dello Stato, Giovannone si trovò al centro di indagini i cui contenuti sembravano usciti da romanzi di spionaggio. Fu arrestato una prima volta nel luglio 1984, accusato di aver confidato ad esponenti delle organizzazioni palestinesi Olp e Fplp notizie fatali per i giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo, tragicamente scomparsi il 2 settembre 1980 in Libano. Un secondo arresto, nel febbraio 1985, lo vide implicato nelle inchieste sul traffico d’armi tra l’Olp e le Brigate Rosse. Queste accuse erano pietre scavate in quel muro di omertà e doppie verità che circondava l’intelligence italiana e il suo rapporto con la polveriera mediorientale.

Non stupisce dunque che, a undici giorni dalla sua morte, il presidente del Consiglio Bettino Craxi fece calare sull’intero dossier una coltre impenetrabile, imponendo il segreto di Stato sulle relazioni tra servizi italiani e il Fplp. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, fondato nel 1967 da George Habash, era un’organizzazione politica e paramilitare palestinese di orientamento marxista-leninista.

Recentemente, il governo guidato da Giorgia Meloni ha dato un impulso forte e trasparente alla desecretazione di documenti coperti da segreto di Stato, e molti documenti sul dossier Giovannone sono stati declassificati, in particolare gli originali riguardanti i rapporti e i contatti intrattenuti da Giovannone con le organizzazioni palestinesi sul “Lodo Moro”, sui traffici d’armi e le tensioni nel periodo delle stragi, sulla scomparsa di Toni e De Palo.

L’agente “Maestro”: una parabola tra storia e intelligence

Classe 1920, fiorentino, Giovannone emerge nei convulsi anni della Seconda Guerra Mondiale: un audace colpo notturno per liberare il padre, ingegnere militare, dalle prigioni jugoslave a Fiume ne segna il destino. La sua formazione come tenente dei carabinieri lo conduce in Somalia, tra il 1946 e il 1963, potendo seguire le varie fasi da colonia ad amministrazione fiduciaria Italiana in Somalia (AFIS), fino ai primi anni di indipendenza. In questi anni Giovannone, divenuto maggiore, impara il mestiere e diventa un professionista dell’intelligence. Non è dato sapere quando assume il suo evocativo nome in codice: “Maestro”. Secondo vari testimoni, non sarebbe però stato in grado di intuire l’ascesa a Mogadiscio del giovane Mohammed Siad Barre, nonostante questi fosse stato formato nella Scuola allievi sottufficiali dei Carabinieri di Firenze ed avesse mosso i primi passi proprio nel Gruppo dei Carabinieri somali. Siad Barre compie un golpe nel 1969 e scivola rapidamente verso il campo sovietico e l’ideologia socialista.

Beirut e il grande gioco mediterraneo

Ali di piombo e valige sempre pronte: dal 1972 il colonnello Giovannone è a Beirut, in una stagione in cui la città dei cedri si trasforma da perla mondana a inferno della guerra civile. Qui l’Italia ritaglia per sé un ruolo unico grazie alla diplomazia parallela ispirata da Aldo Moro, già dai tempi della sua permanenza alla Farnesina dove apriva progressivamente ad una politica filo-araba. Di giorno ufficiale, di notte plenipotenziario nelle relazioni con tutte le fazioni: la sua influenza va ben oltre i rapporti convenzionali, complice un ampio mandato conferitogli dall’allora direttore del Servizio Informazioni Difesa (SID), generale Vito Miceli.

I giochi si aprono quando, il 14 gennaio 1973, cinque terroristi palestinesi sono arrestati a Ostia mentre progettano di abbattere l’aereo della premier israeliana Golda Meir con dei lanciamissili sovietici Strela-2. Il caso viene gestito con una dose forse eccessiva di “realpolitik”: i cinque, prima interrogati, vengono poi fatti evadere, nell’ambito di quella strategia meglio nota come Lodo Moro, che avrebbe garantito all’Italia anni di relativa immunità dagli attentati, al prezzo però di favori pericolosi ed equilibri precari.

L’ombra lunga del Lodo Moro

Il “Lodo” non fu solo un’invenzione di scuola italiana di intelligence, ma una tela tessuta su più fronti: concessioni ai palestinesi da un lato, e qualche garanzia agli israeliani dall’altro. Giovannone, protetto da Moro e profondamente inserito nella diplomazia parallela mediorientale, fu il vero architetto della tenuta del Lodo, persino nei giorni più cupi, tanto da condividerne, con lo statista salentino, il nome. Questo accordo di diplomazia parallela tra l’Italia e l’Olp mirava a mettere al sicuro il nostro Paese dalle attività terroristiche. Secondo varie fonti, mai appurate, tra cui il Presidente Francesco Cossiga, l’Italia pagò un prezzo caro per il Lodo: il Mossad israeliano, per rappresaglia, avrebbe abbattuto l’aereo militare Argo 16, reo di essere stato utilizzato per riconsegnare alcuni terroristi palestinesi. Il Lodo Moro non sembrò perdere di intensità. Grazie anche alla mediazione di Giovannone, che triangolò magistralmente con la Libia, esso fu esteso, dopo il grave attentato all’aeroporto di Fiumicino del 17 dicembre 1973, alle fazioni più estreme di Fplp e Settembre Nero. In quegli anni in realtà si moltiplicarono i Lodi, e se ne stipularono numerosi altri per puntellare i rapporti “pacifici” in un’Italia in piena Guerra Fredda.

Il Sequestro di Aldo Moro

Durante la prigionia del 1978, Aldo Moro scrisse diverse lettere in cui citava espressamente il colonnello Giovannone (spesso chiamato “Giovannoni”). Moro lo considerava una risorsa importante per la sua possibile liberazione, soprattutto per le sue competenze nella diplomazia parallela e i suoi rapporti con il mondo palestinese, a sua volta canale di interlocuzione con le Brigate Rosse. In almeno due lettere – una a Flaminio Piccoli, l’altra a Erminio Pennacchini – Moro invoca il ritorno in Italia di Giovannone, ritenendolo determinante per eventuali mediazioni internazionali legate ai gruppi palestinesi e, quindi, alla sua stessa sorte. Nonostante l’insistenza di Moro, il governo italiano applicò la “linea della fermezza”, escludendo negoziati segreti attraverso servizi o canali paralleli. Per questo Giovannone fu di fatto estromesso dalle trattative, non potendo concretamente incidere sugli eventi. Anni dopo, il terrorista Carlos raccontò di un tentativo concreto di mediazione dei servizi italiani guidati da Giovannone, che sarebbe però fallito per fughe di notizie e l’opposizione dei vertici del Sismi. Non ci sono, tuttavia, riscontri ufficiali che questo tentativo abbia mai avuto un seguito concreto.

Eclissi e tramonto

Dopo la perdita di Aldo Moro, Giovannone entrò in una spirale discendente. Incarichi sempre più marginali, relazioni sempre più compromesse. Divenne una presenza scomoda, ingombrante per la nuova gestione dei servizi, e trovò pochi amici nel sottobosco dell’intelligence italiana, tra i quali il recentemente scomparso Francesco Pazienza.

L’ultimo atto si gioca nelle inchieste sul traffico di armi, e sul caso Toni-De Palo. Secondo il magistrato Carlo Mastelloni, però, le sue dichiarazioni e i depistaggi avevano una ratio più ampia: non proteggere sé stesso, ma piuttosto la ragion di Stato e il fragile mosaico di equilibri costruito dal Lodo, persino a costo di scontentare la nuova dirigenza dell’intelligence, insediatasi al Sismi. Non mancò di pronunciare, sottovoce, una caustica dichiarazione a Mastelloni: «Sa, dottore, io ho lavorato per la Cia», a testimoniare quanto fossero intricate le relazioni durante la Guerra Fredda.

Una fine da romanzo

La morte di Giovannone rappresenta la metafora perfetta del mestiere di uno dei migliori 007 italiani: una vita vissuta nell’ombra, al crocevia tra lealtà e realpolitik, chiusa senza rumore, ma lasciando dietro di sé scie di sospetti e segreti che nemmeno il tempo, né la giustizia o la storia, hanno ancora del tutto svelato.

Sfuma così, in una calda nottata estiva romana di quaranta anni fa, la parabola di Giovannone: un destino familiare a tanti uomini di intelligence, inghiottiti dal loro stesso mestiere, in attesa che la Storia, almeno lei, riesca a pacificare ciò che la cronaca, la giustizia e la politica, hanno diviso ed eluso.

L’imposizione del segreto di Stato dopo la sua scomparsa ha contribuito a perpetuare il mito e il sospetto intorno a uno dei più abili – e controversi – artigiani dell’intelligence italiana. Se meritorio è stato lo sforzo del Governo Meloni di svelare alcune coltri del mistero, gli storici attendono un atto ancora più rivelatorio, con particolare attenzione alla vicenda Toni – De Palo.

Il Lodo Giovannone oltre Giovannone

Il “Lodo Moro”, noto anche come “Lodo Giovannone”, sopravvive come categoria storica e oggetto di studio, simbolo delle strategie complesse e ambigue della Guerra Fredda. Il Lodo non è più quindi una realtà operativa, né come accordo segreto né come prassi ufficiale: la sua funzione si è definitivamente esaurita con la fine della Guerra Fredda. Analisti del settore ritengono però che, negli ultimi 25 anni di radicalizzazione di matrice islamica, la legacy e la scuola di Giovannone possano aver lasciato tracce nel modello di gestione della sicurezza che l’Italia ha adottato interloquendo con nuovi attori e sigle dell’antagonismo e del terrorismo islamico.


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