La Russia ha ufficialmente riconosciuto i Talebani come legittimi rappresentanti dell’Afghanistan, segnando una svolta nei rapporti diplomatici. Questa decisione potrebbe rafforzare l’influenza di Mosca in Asia Centrale e nei Paesi islamici. Resta il dubbio se si tratti di una mossa strategica o dell’accettazione pragmatica di una realtà consolidata
Il 3 luglio 2025, la Russia è diventata il primo Stato al mondo a riconoscere ufficialmente il governo talebano in Afghanistan, accettando le credenziali dell’ambasciatore Gul Hassan Hassan e issando la bandiera dell’Emirato Islamico presso l’ambasciata afghana a Mosca. Un gesto che rompe il tabù internazionale sorto dopo la presa di Kabul nell’agosto 2021 e che rischia di segnare un precedente carico di implicazioni.
A prima vista, potrebbe sembrare solo un passo di realpolitik: Mosca ha legami storici con l’Afghanistan, interessi strategici nella regione e, dal crollo del governo filo-occidentale, ha mantenuto aperti canali diplomatici con i Talebani. Ma non si tratta solo di convenienza tattica. Il riconoscimento arriva a pochi mesi dalla decisione della Corte Suprema russa di rimuovere i Talebani dalla lista delle organizzazioni terroristiche. Una decisione che ha suscitato reazioni perplesse, ma coerente con una politica estera russa sempre più sganciata dai parametri dell’Occidente.
Eppure, dietro il gesto formale si nasconde una realtà più amara: il riconoscimento del governo talebano rappresenta anche una sorta di ammissione di sconfitta storica. Durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, dal 1979 al 1989, i futuri leader talebani combatterono nelle fila della resistenza islamica mujahideen, in particolare nei gruppi Hezb-i Islami Khalis e Harakat-i Inqilab-e Islami. In quel periodo, Mosca fu costretta a ritirarsi da un conflitto logorante, che contribuì alla fine dell’URSS. Oggi, la Russia si trova a riconoscere come legittimo un regime nato proprio dalla volontà di liberare l’Afghanistan dall’influenza sovietica.
Ma c’è di più. Il riconoscimento russo riflette anche una crescente preoccupazione per l’espansione cinese in Afghanistan. Pechino si è mossa con rapidità e discrezione, consolidando la propria presenza economica con investimenti nelle miniere di rame (Mes Aynak), terre rare, litio e altre risorse strategiche. Il regime talebano, in cerca di legittimità e capitali, ha accolto favorevolmente l’interesse cinese, incluso l’ingresso nell’orbita della Belt and Road Initiative. L’Afghanistan, ponte naturale tra l’Asia centrale e meridionale, è diventato terreno di competizione silenziosa ma crescente tra due potenze autoritarie: la Russia che cerca di recuperare influenza, e la Cina che mira a consolidarla.
Dietro questa mossa diplomatica si intravedono dunque almeno tre letture. La prima è regionale: la Russia vuole garantirsi una linea diretta con Kabul per limitare l’influenza dell’ISIS-K, responsabile dell’attentato al Crocus City Hall di Mosca nel 2024, e per contrastare il traffico di oppio e l’instabilità che potrebbe propagarsi verso le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale.
La seconda è economica: Mosca guarda a nuovi corridoi energetici e commerciali attraverso l’Afghanistan, ma teme di essere scavalcata da Pechino in una zona che considera parte della propria “sfera d’influenza storica”.
La terza è ideologica: il riconoscimento è anche un messaggio al “blocco occidentale”. La Russia si propone come alternativa a un ordine internazionale che giudica ipocrita e a senso unico. Non a caso, né Washington né Bruxelles hanno fatto passi simili, insistendo sulla violazione sistematica dei diritti umani da parte del regime talebano, soprattutto nei confronti delle donne e delle minoranze etniche.
Tuttavia, il riconoscimento russo apre una crepa in quello che fino ad ora era stato un muro compatto di non-legittimazione. Altri paesi – dall’Iran al Pakistan, dalla Turchia all’Arabia Saudita – pur senza riconoscimento ufficiale, mantengono relazioni stabili con il governo de facto di Kabul. Ora potrebbero sentirsi liberi di seguirne l’esempio, in nome della stabilità o di interessi più cinici.
Resta una domanda sospesa: può un riconoscimento politico avvenire in assenza di qualsiasi progresso sul piano dei diritti, dell’inclusione, della trasparenza? Se la risposta è sì, allora il messaggio lanciato dalla Russia è chiaro: la legittimità non si misura più con i valori, ma con l’efficacia e la sopravvivenza. Ed è un messaggio che potrebbe rivelarsi contagioso.