Senza accesso diffuso all’energia, ai mezzi tecnici, alle infrastrutture locali, l’agricoltura non cresce. L’interconnessione, la multimodalità, il saper leggere e mettere in correlazione elementi apparentemente differenti, il saper rivolgersi a strutture preesistenti e a reti di rapporti locali consolidati sono solo parte degli ingredienti necessari per i rilanci dei territori. L’intervento sul Piano Mattei per l’Africa del parlamentare campano, membro della commissione agricoltura
Nel secondo dopoguerra, quando l’Italia cercava faticosamente di rimettersi in piedi dopo le distruzioni belliche, pochi avrebbero immaginato che un’azienda petrolifera statale potesse diventare un motore per la rinascita agricola del Paese. Eppure, Enrico Mattei, fondatore e presidente dell’ENI, vide proprio in questa connessione – tra energia, industria e terra – la chiave di un modello di sviluppo originale, radicato e coerente con le necessità italiane. Il metano, scoperto nei giacimenti della Pianura Padana, non fu solo una fonte energetica per l’industria meccanica e chimica del Nord, ma divenne presto una risorsa strategica anche per l’agricoltura. Mattei comprese che l’Italia poteva svincolarsi dalla dipendenza estera anche nel settore dei fertilizzanti, utilizzando proprio il gas naturale come base per produrre concimi azotati a basso costo.
Nel 1953 nasce ufficialmente l’ENI, e pochi anni dopo, nel 1956, Mattei decide di costruire a Ravenna un grande impianto industriale attraverso la controllata ANIC (Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili), destinato alla produzione integrata di gomma sintetica e fertilizzanti e che sarebbe entrato in funzione nel 1958. È una scelta non solo tecnologicamente avanzata, ma politicamente visionaria: con un solo polo, costruito lungo il canale Candiano, Mattei vuole imprimere un’accelerazione alla modernizzazione agricola, abbassando i costi e rendendo accessibili i fertilizzanti anche alle piccole aziende agricole. L’inaugurazione dello stabilimento, preceduta dalla celebrazione di una messa nei magazzini della gomma alla presenza dell’arcivescovo Baldassarri, testimonia il valore simbolico e sociale dell’opera, che va ben oltre la semplice funzione produttiva.
L’intuizione di Mattei si fondava su un principio chiaro: la disponibilità del metano italiano doveva essere valorizzata in modo circolare, con ricadute dirette sulla struttura economica del Paese. Tuttavia, il sistema agricolo era fragile, i terreni spopolati, e la competitività dei prodotti italiani risultava bassa anche per la scarsità e l’alto costo dei fertilizzanti chimici. Grazie all’ANIC e alla strategia dell’ENI, la produzione di fertilizzanti azotati poté aumentare in modo considerevole, beneficiando dei prezzi ridotti dell’energia e delle economie di scala.
Mattei non si limitò a costruire impianti, ma pensò anche alla distribuzione. Fu così che strinse un’alleanza con la Federconsorzi, storica rete cooperativa agricola, per garantire la capillarità della fornitura e la sostenibilità economica dei prezzi. Non si trattava solo di industrializzare la campagna, ma di creare le condizioni perché gli agricoltori potessero restare sulla terra, trovare convenienza nel coltivare, e al tempo stesso contribuire alla sicurezza alimentare del Paese. In questo senso, l’industria non si imponeva sull’agricoltura, ma la serviva. Il concime diventava accessibile anche alle aziende marginali, soprattutto nel Centro-Sud, e il gas naturale assumeva un valore strategico per la coesione sociale oltre che per la competitività agricola.
Quella visione, in cui lo Stato produttore si faceva garante dell’interesse collettivo, segnava un’epoca. Mattei fu accusato spesso di essere un “filibustiere” o un “capitalista pubblico”, ma il suo progetto si inseriva in una più ampia concezione di “economia mista”, in cui pubblico e privato cooperavano per generare valore diffuso. Il fertilizzante non era solo un prodotto, era un tassello di un disegno più ampio di sovranità nazionale, capace di unire energia, industria e terra in un progetto autenticamente italiano.
Nel silenzio delle campagne padane e lungo i tracciati ferroviari del Nord Italia, tra il 1950 e il 1958 andava prendendo forma una delle più grandi opere infrastrutturali mai realizzate in Italia: la rete dei metanodotti dell’ENI. Non si trattava di un’opera celebrata, né oggetto di clamore mediatico. Eppure, dietro quei tubi interrati, spesso invisibili anche agli stessi agricoltori che ne beneficiavano, si celava una trasformazione profonda del rapporto tra industria e agricoltura. Enrico Mattei comprese fin da subito che la vera potenza del metano non stava soltanto nella sua capacità di alimentare le acciaierie, le raffinerie o gli impianti chimici, ma nella possibilità di utilizzarlo come leva per fertilizzare i campi e rendere competitive anche le aziende agricole di piccola scala.
Nel 1951 la rete contava già oltre 1500 km. Appena sette anni dopo, nel 1958, il sistema italiano di metanodotti raggiungeva i 4120 km di estensione, il più ampio d’Europa occidentale, a cui si aggiungevano 900 km per la distribuzione urbana. Il metano della Pianura Padana alimentava le industrie, ma soprattutto rendeva possibile la produzione di concimi azotati a costi mai visti prima. I dati sono eloquenti: tra il 1950 e il 1956, il tasso di incremento dei consumi energetici (9,5%) superava quello del PIL (7%). Questo squilibrio virtuoso, figlio della disponibilità di gas a basso costo, apriva spazi di sviluppo anche ai settori tradizionalmente meno favoriti, come l’agricoltura.
La metanizzazione non fu solo un fatto tecnico. Fu una scelta politica. Mattei pretese che la SNAM, società del gruppo ENI, estendesse la rete anche a zone non immediatamente industrializzate. Il gas naturale, trasformato chimicamente in ammoniaca e nitrati, diventava così il cuore di una nuova agricoltura: più efficiente, più moderna, meno dipendente da importazioni e da vecchie tecniche a basso rendimento. Il prezzo del gas era nettamente inferiore a quello praticato nei Paesi vicini: 9 lire per metro cubo contro le 16 della Germania e le 24 dei Paesi Bassi. Questo vantaggio competitivo si rifletteva direttamente sul costo dei fertilizzanti.
Se la produzione di fertilizzanti a basso costo fu il motore della rinascita agricola, la distribuzione capillare rappresentò la rete capace di trasformare quell’energia industriale in cambiamento concreto nei campi. Enrico Mattei sapeva che non bastava immettere sul mercato un concime economico e moderno: occorreva metterlo nelle mani degli agricoltori, ovunque si trovassero, e farlo in modo rapido, trasparente, equo. Per questo motivo strinse un’alleanza strategica con la Federconsorzi, la storica struttura cooperativa che, attraverso i Consorzi Agrari, era presente in ogni provincia d’Italia e parlava la lingua del mondo contadino.
Grazie a un accordo diretto con l’ENI e l’ANIC, come anticipato, i fertilizzanti venivano distribuiti attraverso i magazzini consortili, raggiungendo anche i comuni più piccoli. Il sistema consortile funzionava da cinghia di trasmissione tra la grande industria pubblica e il mondo rurale.
Nel giro di pochi anni, i risultati della strategia messa in campo da Mattei si fecero evidenti. L’uso diffuso di fertilizzanti azotati contribuì all’aumento della produttività agricola. Le rese crebbero, il reddito agrario si stabilizzò, e il lavoro nei campi tornò ad avere dignità economica. L’industria energetica pubblica, con la collaborazione dei Consorzi Agrari, riusciva a svolgere una funzione di coesione sociale. L’agricoltura italiana, ancora priva della PAC, trovava una via autonoma per il rilancio. E la terra, grazie al fertilizzante, tornava a essere una risorsa viva e centrale.
Nel gennaio 2024, durante il vertice Italia-Africa, la presidente Giorgia Meloni ha annunciato il nuovo Piano Mattei per l’Africa. Il nome non è casuale, e vale la pena chiedersi se questo nuovo progetto condivida davvero lo spirito dell’originale. Il piano attuale tocca anche l’agricoltura, con investimenti e memorandum, con la volontà e le intenzioni di dar luogo a quel legame profondo con i territori che Mattei seppe creare, facendo proprio così lo spirito di una delle figure che più contribuì al rilancio della nostra Nazione.
La lezione di Mattei resta attuale: senza accesso diffuso all’energia, ai mezzi tecnici, alle infrastrutture locali, l’agricoltura non cresce. L’interconnessione, la multimodalità, il saper leggere e mettere in correlazione elementi apparentemente differenti, il saper rivolgersi a strutture preesistenti e a reti di rapporti locali consolidati sono solo parte degli ingredienti necessari per i rilanci dei territori.
La seconda relazione al Parlamento sul Piano Mattei del 30 giugno 2025 conferma non solo l’efficacia ma anche la solidità strategica di un’iniziativa che si dimostra, giorno dopo giorno, tutt’altro che una scatola vuota. Dai 1,2 miliardi di euro mobilitati nel vertice di Roma alla crescita dei Paesi partner da 9 a 14, il Piano ha superato lo scetticismo iniziale traducendosi in un modello concreto di cooperazione e sviluppo condiviso.
Ma ciò che emerge con forza è la natura strutturale e dinamica del Piano Mattei: una strategia di interesse nazionale, pensata nel medio-lungo periodo, come un “documento vivente” in costante evoluzione. Ogni progetto nasce da un confronto diretto con le istituzioni e le comunità dei Paesi africani coinvolti, passando attraverso una valutazione congiunta – sociale, ambientale e strategica – volta a garantire impatti sostenibili e duraturi. I princìpi della transizione verde, dell’adattamento climatico e dello sviluppo inclusivo non sono accessori, ma fondamenti di ogni intervento.
La vera sfida, infatti, non è stata solo quella di costruire partenariati paritari e solidi, ma anche di mantenere l’Africa al centro della politica estera italiana, nonostante le crisi internazionali che rischiavano di spostare lo sguardo altrove. L’azione del Governo Meloni, guidata dalla naturale vocazione mediterranea dell’Italia, si fonda sulla consapevolezza che la stabilità e la prosperità africane siano determinanti non solo per l’Europa ma per l’equilibrio globale.
Il Piano Mattei rappresenta dunque una svolta: non assistenzialismo, ma cooperazione. Non imposizione, ma ascolto. Non dipendenza, ma autosufficienza. In piena linea con i princìpi e l’operato di Enrico Mattei, che fu sempre per lo sviluppo locale e mai per la predazione. È questo il paradigma che l’Italia ha scelto di portare avanti, con non poca ambizione e non poca invidia da parte di competitor diretti e indiretti, nel solco di una diplomazia concreta e operativa. Un progetto che può ridisegnare il rapporto tra Nord e Sud del mondo e rilanciare il protagonismo dell’Italia come ponte tra Europa e Africa.