Il nucleare può rappresentare una risorsa strategica per la transizione energetica italiana: i reattori modulari di nuova generazione offrono maggiore sicurezza, riduzione dei costi della decarbonizzazione e stabilità della rete elettrica. Inoltre, favoriscono l’indipendenza tecnologica e industriale, con significativi benefici economici e competitivi nel lungo periodo. L’analisi di Franco Cotana, amministratore delegato di RSE S.p.A., ordinario di Fisica Tecnica Industriale all’Università degli Studi di Perugia
Il dibattito sul tema della reintroduzione del nucleare nel mix energetico italiano sta aumentando di intensità con l’avvicinarsi dell’esame in Parlamento del disegno di legge sul nucleare sostenibile. In questo contesto, il recente rapporto “L’Atomo fuggente: analisi di un possibile ritorno al nucleare in Italia”, scritto da Luciano Lavecchia e Alessandra Pasquini e pubblicato dalla Banca d’Italia, analizza alcuni dei benefici e aspetti problematici che accompagnerebbero una eventuale “rinascita” del nucleare nel nostro Paese.
I due autori, economisti di Bankitalia, sono intervenuti nel dibattito riguardante decisioni di politica energetica di portata strategica per il futuro del nostro Paese. Queste scelte richiedono contributi rigorosi da parte di enti di ricerca, università e organismi pubblici con autorevoli attività di analisi e ricerca. Tale è stato il lavoro della Piattaforma Nazionale per un Nucleare Sostenibile, istituita dal ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica nel 2023. La Piattaforma ha articolato le proprie attività in sette gruppi di lavoro, ciascuno dei quali ha pubblicato i propri risultati in rapporti disponibili sul sito del ministero.
Partiamo dal titolo (L’Atomo fuggente…), la cui assonanza cinematografica ironica e parodica non si addice ad un rapporto tecnico di un autorevole organismo come Bankitalia. Ma il punto fondamentale è un altro. Alcune delle tesi esposte nel rapporto non sono supportate da sufficiente rigore analitico e metodologico e rinforzano due narrazioni ricorrenti su ipotetici aspetti critici legati alla eventuale reintroduzione del nucleare in Italia. La prima è che non vi sarebbero effetti significativi in termini di riduzione dei prezzi dell’elettricità. La seconda è che si creerebbero nuovi rischi legati a dipendenze energetiche e tecnologiche. Il problema di queste due narrazioni è che distorcono il dibattito poiché sono decontestualizzate e prive di reali evidenze analitiche e scientifiche.
Va premesso che le tecnologie nucleari di fissione individuate nel Piano nazione integrato per l’energia e il clima sono gli Small Modular Reactor (SMR) e gli Advanced Modular Reactor (AMR). Queste sono tecnologie innovative, modulari, caratterizzate da sicurezza intrinseca passiva e per lo sviluppo delle quali l’Italia ha già una forte base di ricerca e solide competenze industriali. Lo scenario di decarbonizzazione (Net Zero) con nucleare delineato per il Pniec prevede una graduale reintroduzione delle tecnologie innovative di fissione nucleare, con la realizzazione dei primi SMR a partire dal 2035, seguiti dagli AMR fino a raggiungere almeno 7,6 GW di potenza (il 12% della potenza complessiva attualmente installata in Francia) al 2050. Questo scenario comporta, rispetto a uno scenario alternativo senza nucleare, costi inferiori – e analiticamente determinati – di almeno 17 miliardi (la scala di una manovra finanziaria) per raggiungere il traguardo della decarbonizzazione. Ma questi sono solo una parte dei benefici economici complessivi che includono anche gli impatti positivi di una maggiore sicurezza energetica, ovvero la maggiore stabilità della rete e resilienza nei confronti di shock nell’approvvigionamento sia di gas naturale che di materie prime (ad es. terre rare), oltre che una maggiore indipendenza tecnologica. Si tratta in sostanza di mitigazione dei rischi e costi evitati.
La prima tesi dei ricercatori di Bankitalia è che la realizzazione di nuovi impianti nucleari potrebbe non avere effetti significativi sul livello dei prezzi dell’elettricità con le regole attuali del mercato elettrico. Tuttavia, il limite intrinseco di questa prospettiva è che estrapola le caratteristiche del mercato di oggi ad un contesto futuro che sarà molto probabilmente diverso da quello attuale. E questo a prescindere dal quadro regolatorio del mercato elettrico.
In un contesto di quota crescente di generazione da fonti non fossili (rinnovabili ed eventualmente nucleare), è prevedibile un maggior ricorso ai Power Purchase Agreements (PPA) e dei Contratti per differenza. Per cui da un lato diminuirebbe la quota di elettricità scambiata nel mercato all’ingrosso sulla base del prezzo marginale, dall’altro le fonti non fossili dovranno riuscire a determinare tale prezzo in un numero crescente di ore, a discapito del gas naturale. Altrimenti non ci sarà decarbonizzazione del sistema elettrico.
Riguardo i costi per la realizzazione degli impianti SMR, posto che le stime attuali hanno un margine di incertezza, la riduzione di questi costi non farebbe altro che ricalcare quanto avvenuto per tutte le altre tecnologie energetiche, incluso il nucleare fino a fine anni Novanta. La costruzione in serie di SMR permetterebbe di passare da una economia di scala (tanto più è elevata la potenza tanto minore è il costo a MW) a una economia di serie (tanti più SMR si costruiscono tanto più il costo diminuisce). Questo processo passerà inevitabilmente per una fase iniziale di “apprendimento”, di crescita e consolidamento delle conoscenze tecnologiche ed ingegneristiche. Peraltro, è la stessa fase attraverso la quale sono maturate le tecnologie per lo sfruttamento di energie rinnovabili intermittenti (eolico e solare), le quali hanno beneficiato di generose forme di supporto finanziario.
Ma il dibattito omette spesso un aspetto molto importante. Nel momento in cui il processo di riduzione dei costi delle nuove tecnologie nucleari sarà ben avviato, le Nazioni che avranno saputo creare una base industriale interna beneficeranno di un indiscutibile vantaggio competitivo rispetto a quelle che decideranno di perseguire la decarbonizzazione con le energie rinnovabili e il gas naturale in impianti con cattura e stoccaggio di carbonio. Questo significa più industrie con elevato know-how tecnologico e alto valore aggiunto economico.
L’ipotesi che alle nuove tecnologie nucleari vengano destinati degli incentivi (per lo meno nella fase iniziale) viene spesso “utilizzata” per far valere la tesi secondo la quale il nucleare comporterebbe costi aggiuntivi nelle bollette per famiglie e imprese. Ma anche in questo caso si tralascia il contesto, che vedrà nei prossimi anni in Italia una fortissima diminuzione degli incentivi per le rinnovabili soprattutto grazie all’esaurimento del Conto Energia. Inoltre, non si comprende perché eventuali incentivi a una fonte a zero emissioni di carbonio come il nucleare siano da alcune parti considerati come “privilegio insostenibile” quando negli ultimi venti anni le rinnovabili sono costate ai consumatori italiani almeno 170 miliardi di euro, a fronte di una limitata base industriale domestica nella produzione di componenti a più alto valore aggiunto tecnologico.
Una seconda narrazione che sta ricevendo attenzione crescente riguarda i rischi legati a nuove dipendenze energetiche e tecnologiche. È vero che le riserve di uranio hanno una concentrazione elevata, laddove 8 Paesi detengono più del 95% delle riserve mondiali, alcuni dei quali sono considerati a rischio geopolitico. Ma bisogna sempre tenere a mente la differenza tra rischio e vulnerabilità, laddove un rischio non si traduce automaticamente in vulnerabilità. Ad esempio, come già avvenuto per il Niger, c’è sempre il rischio che uno dei Paesi estrattori di minerali uraniferi possa interrompere le forniture ai Paesi occidentali, ma il fatto che il 40% delle riserve mondiali di uranio sono localizzate in Australia e Canada non rende questo rischio una vulnerabilità. Analogamente, la capacità industriale di arricchimento dell’uranio da parte dei due principali player industriale occidentali si attesta al 40% dei livelli mondiali, il che dovrebbe far dormire sonni tranquilli.
In merito al rischio di dipendenze tecnologiche, alcune industrie italiane sono già importanti player per la realizzazione di impianti nucleari in altri Paesi occidentali, mentre una autarchia tecnologica nel settore delle nuove tecnologie nucleari farebbe soltanto levitare costi e tempi di industrializzazione a livelli insostenibili. Per contro, eventuali partnership industriali con altri Paesi occidentali darebbero garanzie più che sufficienti riguardo le prospettive di crescita dell’industria italiana e l’affidabilità della fornitura di tecnologie, certamente superiori rispetto ad altre tecnologie energetiche low-carbon. Infatti, ci si dimentica spesso delle forti dipendenze da Paesi esteri per l’importazione di tecnologie quali eolico, solare e l’accumulo con batterie. Queste dipendenze tecnologiche vedono crescenti vulnerabilità su fasi strategiche della catena di valore, nella fattispecie l’importazione di componenti (ad es. celle fotovoltaiche e celle per batterie) e l’approvvigionamento di materie prime (terre rare e altri minerali). Questo aspetto della maggiore indipendenza tecnologica si lega alla dimensione della sicurezza energetica, che è il valore più importante di un mix bilanciato di fonti.
Concludendo, le analisi su eventuali benefici e ipotetici aspetti problematici di un ritorno al nucleare in Italia devono essere fatte con rigore metodologico e poste nel contesto giusto. Non farlo presta il fianco a facili strumentalizzazioni.