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Phisikk du role – Trump, Putin, l’Alaska. Mediatori di pace di ieri e di oggi

A favore di telecamere il linguaggio putiniano è apparso più appropriato e in linea con la semantica di un capo di Stato in missione di quanto non sia quello trumpiano. Sembrava addirittura rassicurante e il suo dire razionale. C’è poco da fare: la scuola sovietica aveva un suo che… La rubrica di Pino Pisicchio

Se apriamo i libri di storia, non necessariamente quella remota, è sufficiente quella del secolo scorso, che mise il mondo (sempre smemorato) di fronte al disastro di due guerre mondiali, e andiamo alla voce “mediatori di pace” e al loro lavoro che condusse agli armistizi per sanzionare l’avvento di un tempo senza più strappi bellicisti, ci imbattiamo in personaggi e modalità alquanto diversi da quel che stiamo osservando oggi. Pensate alla Conferenza di pace di Parigi del 1919, dove un presidente americano di grande saggezza, di nome Thomas Woodrow Wilson (strenuo sostenitore della Società delle Nazioni e della pace duratura), se la vide con il primo ministro inglese Lloyd George, preoccupato di non umiliare troppo la Germania sconfitta e con il premier francese Clemenceau, che voleva, al contrario, i tedeschi in ginocchio. La trattativa era portata da pari a pari, ponendo attenzione persino ai dettagli semantici tra i negoziatori e non solo per le parole destinate a restare nei documenti.

Non diversamente andò a Parigi nel 1947, quando Harry S. Truman, Iosif Stalin e Clement Attlee, i leader americano, sovietico e britannico, insieme a tutti gli altri-compresa l’inclusione degli ex alleati della Germania, che invece venne esclusa da negoziati e firma del trattato- predisposero e conclusero il patto della pace che era stato immaginato già nel 1945 a Jalta tra l’americano  Franklin Delano Roosevelt, il premier inglese  Winston Churchill e il capo sovietico, sempre lui: Iosif Stalin e in cui, tra i punti salienti, si parlava di Onu. Quando si dice: l’arte della diplomazia..

Andiamo al freddo riscaldato dai cambiamenti climatici dell’Alaska, giorni nostri, ultime ore. Un disturbante clamore mediatico, con installazione di presidi tv in mezzo ad una farinosa neve natalizia, inviati da tutto il globo e, per noi italiani che abbiamo la premier “amica” di Donald, dirette Rai in notturna commentate dai soliti esperti (sic! Ma poteva andare peggio: pensate ai commenti dei politici…) hanno tenuto bordone al mega show trumpiano, con tanto di red carpet in stile hollywoodiano (giustamente), per raccontare il nulla assoluto che il più sprovveduto degli osservatori avrebbe potuto certificare con bollino e ceralacca prima ancora che si verificasse. O meglio: il nulla quanto a contenuti relativi all’invasione dell’Ucraina, che, andrebbe ricordato, era la ragione di tutto quell’ambaradam, parecchio, invece, in termini di comunicazione, per quel che concerne la reputazione internazionale dell’uomo venuto da Mosca. Perché Putin ne esce alla grande. Ha, infatti, ricevuto da Trump un regalo immenso, che va molto più in là dello sdoganamento del leader russo dopo l’abiura della Corte Penale Internazionale, peraltro non riconosciuta dagli Usa.

Putin, infatti, dal ridimensionato satrapo di una potenza regredita al livello regionale (sotto l’egemonia cinese) dopo i fasti antichi di superpotenza globale dell’Unione Sovietica, eccolo rimbalzato, tappeto rosso, battimani e grinta da quarantenne all’arrembaggio, a lignaggi mondiali, sottolineati dal leader della Federazione Russa che evocava l’accoppiata russo-americana della seconda guerra mondiale per liberare il mondo dal nazismo. Se in sovrappiù ci mettiamo il carico degli affari tra i due governi, che hanno rappresentato un motivo rilevante di questo “storico” incontro, il bilancio è bell’e fatto. Francamente lascia stupito l’atteggiamento di media e osservatori “professionisti” che, addirittura, di fronte al modestissimo risultato trumpiano -almeno a considerare l’intento catartico-pacifista dichiarato ai quattro venti- hanno immaginato di discettare sulle virtù di quella specie di diplomazia “personale” che sarebbe stata inaugurata dal leader americano, contrapposta a quella ordinaria, con i suoi riti e il suo linguaggio.

Per non parlare poi della mortificante estraneità dell’Europa, che, nonostante abbia provveduto ad attaccare il telefono nella sede dell’Ue, in mancanza del quale sarebbe stato impossibile, secondo la leggenda, al segretario di stato americano Kissinger, ogni comunicazione per mancanza di filo diretto con un capo, continua ad avere un ruolo ancillare laddove si continua a decidere. La cosa sorprendente, tuttavia, sono i media: è possibile che la macroscopica anomalia dell’assenza dell’unica parte necessaria per concludere un’intesa, seppur preliminare, cioè l’Ucraina, sia rilevata solo da un drappello di eroici manifestanti alaskani che si pongono la semplice domanda: come pensate di fare una un’intesa in assenza dell’altra parte interessata, e cioè il paese invaso? È possibile avviare un qualsiasi negoziato mentre nelle stesse ore si scaricano 68 nuovi ordigni di morte contro il popolo ucraino?

E ancora: con tutta la considerazione che si deve a chi prova a spendere qualcosa di sé per trovare una quadra possibile ad una guerra che, secondo le stime accreditate dalle agenzie di intelligence occidentali, ha fatto finora 1,4 milioni di vittime di militari, tra morti e feriti (250 mila soldati russi e 100 mila ucraini deceduti mentre non è ancora chiaro il numero dei civili periti), siamo proprio sicuri che il nuovo look vincente della diplomazia globale possa essere quello della forza, stile marchese del Grillo? Non ci sembra che in questo modo stiamo buttando via tutto quello che faticosamente avevamo codificato dopo la tragica esperienza della guerra mondiale, che si chiamava diritto internazionale, diritto umanitario, diritto delle nazioni unite?

Chiosa finale: a favore di telecamere il linguaggio putiniano è apparso più appropriato e in linea con la semantica di un capo di Stato in missione di quanto non sia quello trumpiano. Sembrava addirittura rassicurante e il suo dire razionale. C’è poco da fare: la scuola sovietica aveva un suo che…


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