L’incontro in Alaska tra i due presidenti è finito senza il cessate il fuoco promesso. Ma dietro le dichiarazioni evasive potrebbe nascondersi un accordo che ora Trump deve vendere a europei e ucraini. L’analisi del generale Ivan Caruso, consigliere militare della Sioi
Tre ore di colloqui, dodici minuti di conferenza stampa senza domande, e Donald Trump che per una volta in vita sua parla per soli tre minuti. Qualcosa non torna nel resoconto ufficiale del vertice di Anchorage. Il presidente americano era arrivato in Alaska dichiarando di volere “un cessate il fuoco rapido” e che “non sarebbe stato contento” se non fosse arrivato quel giorno. È ripartito a mani vuote, almeno in apparenza.
Ma forse la realtà è più sottile. A differenza della narrativa comune, l’insolita laconicità di Trump, il suo rifiuto categorico di rivelare “quella grande cosa” su cui lui e Putin non hanno trovato l’accordo, e soprattutto il linguaggio utilizzato – “ora tocca a Zelensky” fare un accordo – suonano più come una strategia che come un fallimento. Vladimir Putin, dal canto suo, è apparso visibilmente soddisfatto per tutto l’incontro, culminato con l’invito in inglese: “Next time in Moscow”.
La possibilità che i due leader abbiano raggiunto un’intesa di massima, e che ora Trump abbia il compito politicamente delicato di convincere Zelensky e gli europei ad accettarla, spiegherebbe molte anomalie di questo summit. Il presidente americano ha parlato di “informare” alleati e leader ucraino, non di “consultarli” – una differenza linguistica significativa che suggerisce decisioni già prese.
Sul terreno, intanto, la guerra continua con la sua logica spietata. Contrariamente alla narrazione di grandi avanzate russe, i dati mostrano una realtà diversa: la Russia avanza a una media di soli 135 metri al giorno verso Pokrovsk e 50 metri al giorno vicino a Kharkiv. Progressi minimi pagati a caro prezzo: secondo le stime del Center for Strategic and International Studies, Mosca si avvicina al milione di vittime totali, cinque volte superiori a tutte le guerre russe dal 1945 in poi.
Eppure Putin ha ottenuto ciò che voleva dal summit: la legittimazione internazionale dopo dieci anni di assenza dal suolo americano, la dimostrazione che la Russia “non è isolata come affermano i nemici”, e soprattutto il mantenimento delle sue posizioni senza concessioni. Ha ribadito la necessità di “eliminare le radici primarie del conflitto” – codice per l’esclusione dell’Ucraina dalla NATO – e ha ammonito europei e ucraini a non “creare ostacoli” ai progressi raggiunti.
Per Trump, al contrario, i risultati tangibili scarseggiano. Il tanto agognato Premio Nobel per la pace si allontana, l’opinione pubblica americana e ucraina criticano il “tappeto rosso” steso al dittatore russo, e ora deve affrontare il compito politicamente tossico di convincere gli alleati ad accettare compromessi che potrebbero suonare come capitolazione.
Le reazioni europee non si sono fatte attendere. Il ministro degli esteri ceco Jan Lipavsky ha espresso dubbi sull’interesse di Putin per un vero accordo, mentre la ministra della difesa lituana ha accusato il Cremlino di “manipolare le vittime” e minacciare l’Unione Europea. Anche l’ex consigliere di Trump, John Bolton, è stato lapidario: “Trump non ha perso, ma Putin ha chiaramente vinto”.
Se davvero esiste un accordo nascosto, probabilmente include il congelamento delle linee attuali del fronte, garanzie di sicurezza per l’Ucraina al di fuori della Nato, e la rimozione graduale di alcune sanzioni in cambio del cessate il fuoco. Un pacchetto che Putin potrebbe vendere come vittoria al suo popolo e che Trump potrebbe presentare come il prezzo della pace.
Le prossime settimane saranno decisive. Se Trump inizierà a fare pressioni crescenti su Zelensky per “essere ragionevole” e accettare compromessi territoriali, sapremo che lo scenario dell’accordo segreto era quello giusto. In caso contrario, il summit di Anchorage si rivelerà davvero il nulla di fatto che è apparso.
In ogni caso, Putin ha già vinto la partita più importante: è tornato al tavolo delle grandi potenze, ha spezzato l’isolamento diplomatico e ha dimostrato che con la Russia bisogna comunque fare i conti. Il prezzo di questa lezione lo stanno pagando, ancora una volta, i soldati al fronte.