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Google, le sanzioni Antitrust e il futuro della concorrenza nei mercati digitali. Scrive l’avv. Piselli

Di Riccardo Piselli

La crepa creata con la multa a big G non è solo nell’asse tra Usa e Ue, storici alleati, ma tutta interna alle dinamiche del moderno capitalismo occidentale e ai suoi paradossi. Trump è come se mettesse in chiaro alle istituzioni europee una scomoda verità: la stagione del libero scambio e dei mercati concorrenziali efficienti è tramontata. L’analisi di Riccardo Piselli, prof. di Proprietà Intellettuale alla Luiss Guido Carli

Il 5 settembre 2025 la Commissione europea ha assestato un duro colpo a Google, comminando al colosso di Mountain View una sanzione record da 2,95 miliardi di euro per pratiche concorrenziali scorrette. Fin qui niente di nuovo, è più di un decennio che big G è in una faida con le autorità antitrust europee per abuso di posizione dominante nel settore della pubblicità digitale (e non solo). Più singolari sono invece le successive dichiarazioni di Trump sul punto, il quale ha accusato Bruxelles di pratiche discriminatorie contro una importante azienda americana, promettendo contromisure immediate. Dichiarazioni forti, soprattutto se lette in controluce rispetto alla recente cena organizzata da Trump alla Casa Bianca con i ceo delle più potenti imprese tecnologiche statunitensi.

Google, come noto, domina da anni il settore europeo delle ricerche online e agisce in qualità di intermediario in quello che gli economisti chiamano un mercato a due versanti (two-sided market). All’esito di un’indagine formalmente avviata nel giugno 2021, la Commissione accertava che Google, a partire dal 2014, aveva sistematicamente abusato della sua posizione favorendo i propri servizi pubblicitari—in particolare la piattaforma AdX (Ad Exchange) e il sistema DoubleClick for Publishers (DFP)—a discapito di editori, inserzionisti e concorrenti.

La Commissione ha così ordinato a Google di porre immediatamente fine a tali pratiche di auto-preferenza (“self-preferencing”) e ai conflitti di interesse lungo la catena del valore dell’ad-tech. Google ha ora 60 giorni di tempo per presentare un piano adeguato a risolvere queste criticità; in caso contrario, Bruxelles non esiterà a imporre misure strutturali, fino allo smembramento di parti dell’attività pubblicitaria. È in questo contesto che s’inserisce il presidente Trump, il quale ora minaccia di aprire un procedimento ai sensi della sezione 301 del Trade Act del 1974. In forza di tale disposizione, gli Stati Uniti possono adottare misure ritorsive, nella forma di dazi punitivi, contro altri Paesi che abbiano adottato pratiche commerciali irragionevoli e discriminatorie a danno degli States.

Tale comportamento si inserisce pienamente nella metamorfosi che il capitalismo americano sta vivendo sotto la guida di Donald Trump.

Un primo aspetto degno di nota riguarda i mercati efficienti e competitivi. Oggi si tende a dimenticare che le autorità antitrust statunitensi sono figlie di un’epoca lontana: quella del capitalismo americano delle origini, della Standard Oil di Rockefeller, dei trust ferroviari e della grande epopea della frontiera, quando l’obiettivo era costruire un mercato interno aperto e competitivo, nel quale la frammentazione dei poteri economici fosse garanzia di libertà individuale e, soprattutto, di benessere per il consumatore americano. E il sogno americano non poteva che accompagnarsi con l’ideale del ”vinca il migliore” in un campo da gioco livellato per tutti. Di qui l’idea che solo mercati concorrenziali producano efficienza e progresso si è poi trasformata in una retorica universale, esportata con la stessa forza simbolica di Coca-Cola e McDonald’s, introiettata da intere generazioni di economisti, intellettuali e policy maker anche europei.

Ma gli odierni mercati digitali sono tutt’altra cosa. Essi nascono globali per definizione, privi dei confini fisici che caratterizzavano i mercati nazionali del Novecento. Qui vale la logica del “winner takes all”: chi conquista per primo una posizione di vantaggio, tende a mantenerla in modo pressoché incontrastato, moltiplicando il proprio potere di rete e consolidando un dominio difficilmente scalfibile. Non occorre insistere sul fatto che i vincitori di questa corsa sono, in larghissima misura, statunitensi. Ed è proprio in questo mutato scenario che lo stesso antitrust non serve più la logica capitalistico-espansionistica americana. I giganti tech della Silicon valley infatti hanno sempre più bisogno di inghiottire mercati e quei mercati, per definizione, non possono essere competitivi!

La seconda riflessione riguarda quella che ha tutta l’aria di essere una frattura strutturale nell’asse economico transatlantico. L’Unione Europea, applicando oggi norme particolarmente restrittive, non solo rende più ardua la nascita di propri campioni industriali, ma rischia di compromettere anche le prospettive di crescita dei giganti tech statunitensi. A questo punto Trump reagisce con il linguaggio che più gli è congeniale: minaccia di dazi. Lo Stato regolatore lascia progressivamente il posto a un nuovo Stato, non più “guardiano notturno” né tanto meno semplice “interventore”, ma in un certo senso tiranno. Non c’è chi non veda in ciò similitudini – e forse anche una qualche ambizione imitatrice – con la logica del capitalismo di Stato cinese, dove l’impresa privata non è mai totalmente separata dal potere politico e libera, bensì ne costituisce un’estensione funzionale.

Forse allora la crepa non è solo nell’asse tra Usa e Ue – storici alleati -, ma tutta interna alle dinamiche del moderno capitalismo occidentale e ai suoi paradossi. Trump, nella sua schietta irruenza, è come se mettesse in chiaro alle istituzioni europee una scomoda verità: la stagione del libero scambio e dei mercati concorrenziali efficienti è tramontata. I nuovi mercati sono pieni di lupi, che uno Stato non si limita ad abbattere, ma che nutre e dirige a suo piacimento verso i pascoli altrui.


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