A Tripoli, la sfida tra governo e milizie si intreccia con le manovre di Haftar. La Libia torna a minacciare la stabilità del Mediterraneo, mentre l’Europa osserva con preoccupazione per energia, migrazioni e sicurezza
La Libia torna a oscillare pericolosamente sull’orlo di un conflitto endogeno. A Tripoli, nelle ultime settimane, colonne di veicoli blindati, molti dei quali provenienti da Misurata, hanno circondato la capitale, in un crescendo di tensioni che ha spinto la missione Onu (Unsmil) a lanciare un appello urgente alla de-escalation e a convocare un tavolo di negoziato il prossimo 29 settembre.
Tra governo e milizie
Dal maggio scorso, Tripoli vive in uno stato di tensione permanente. L’eliminazione di Abdulghani al-Kikli, detto “Gheniwa” – figura chiave dell’Agenzia per il Supporto alla Stabilità – ha ridisegnato gli equilibri di potere tra le milizie urbane. In particolare, lo scontro aperto tra la Brigata 444, legata al Governo di unità nazionale, e la Forza di deterrenza di Abdel Raouf Kara ha segnato l’inizio di una competizione per il controllo della capitale che nasconde attività di intelligence e interessi esterni.
ll premier Abdelhamid Dbeibah ha intensificato da allora le azioni contro i gruppi fuorilegge, in particolare la Forza di deterrenza speciale per il contrasto al terrorismo e al crimine organizzato (Al Rada), milizia che controlla l’aeroporto internazionale Mitiga di Tripoli, oltre ad una prigione strategica che detiene anche militanti jihadisti.
Divenuto ormai attore (geo)politico di prim’ordine per le dinamiche interregionali e locali, per il governo di Tripoli, Rada rappresenta il nemico interno. L’ultimo player locale armato capace di limitare la proiezione del potere centrale. Una sua neutralizzazione consentirebbe all’esecutivo di consolidare il monopolio della forza nell’area urbana e di estendere l’influenza fino al confine tunisino a ovest e all’asse Sirte -Tawergha a Est.
Il fattore Haftar e le pedine esterne
Che il Summit delle agenzie di intelligence africane (e non solo) si fosse riunito, giorni fa, a Bengasi e non a Tripoli aveva già costituito un primo e non trascurabile indizio sia sulle condizioni di instabilità della capitale libica, sia sul progressivo isolamento del suo governo. Ma il vero ostacolo alle mire di Dbeibah per il consolidamento del potere centrale sono davvero solamente le milizie? Il generale Khalifa Haftar, feudatario della Cirenaica e di parte del Sud libico, mantiene infatti una rete di milizie strategiche nella Tripolitania occidentale – da Zawiya a Sabratha – capaci di colpire il governo al momento opportuno. È un metodo di accerchiamento e logoramento che il leader di Bengasi, che nel frattempo consolida la sua posizione nominando suo figlio come vice, ha già sperimentato durante i recenti scontri a Tripoli e che oggi torna ad agire come freno operativo e logistico.
Lo scenario intreccia una molteplicità di fattori esogeni ed endogeni che contribuiscono all’aumento della complessità e dell’instabilità delle dinamiche libiche. Se la Turchia, tradizionale sponsor del governo tripolino, sembra aver raffreddato il proprio sostegno, arrivando persino a riaprire canali diretti con lo stesso Haftar, altri attori regionali come Egitto ed Emirati restano allineati a Bengasi. Intanto, il Cremlino continua a proiettare influenza attraverso cellule proxy e forniture militari, come osservato durante la parata militare di Bengasi, mentre media locali segnalano nuovi tentativi di Dbeibah di procurarsi mezzi aerei tramite intermediari ucraini e azerbaigiani.
Tripoli e la stabilità mediterranea. Un tavolo a più mani
Il potere centrale di Tripoli vuole oggi il proprio riconoscimento come unica forza riconosciuta, ma le milizie – prima vicine, persino utili al consolidamento del potere ed oggi ritenute scomode – restano spesso meglio armate e maggiormente radicate sul territorio, incaricate della sicurezza di asset occidentali presenti sul territorio libico.
Per la comunità internazionale una Tripoli sotto pieno controllo governativo è un prerequisito per il ritorno di compagnie occidentali, per il ripristino dei collegamenti aerei e per l’attrazione di investimenti indispensabili alla diversificazione di un’economia ancora paralizzata dalla dipendenza dal petrolio.
Per l’Europa, scongiurare una totale instabilità nel quadrante libico rappresenta un punto fondamentale per la gestione dei flussi migratori e la prevenzione di nuovi attori armati e potenzialmente radicalizzati.
Ma la loro influenza resta limitata rispetto al dinamismo dei player tribali e regionali, tasselli complessi per la geografia dell’instabilità libica. A Ovest, la Tripolitania è formalmente sotto il controllo del Gnu di Dbeibah, ma resta un territorio condiviso con Rada, la Brigata 444 e i gruppi di Misurata. La Turchia rimane lo sponsor principale, mentre Roma e Bruxelles guardano con attenzione al dossier energetico e migratorio. A Est, la Cirenaica è il feudo di Haftar e del suo Libyan National Army, sostenuto da milizie tribali e dalle reti di Mosca, Il Cairo e Abu Dhabi. Qui l’obiettivo è duplice: consolidare l’autorità sull’est e logorare Tripoli. Al Sud, il Fezzan è mosaico di gruppi Tebu e Tuareg, trafficanti e milizie locali, nel quale la Russia ha rafforzato la propria presenza.
Se l’instabilità dovesse superare la soglia, sia geografica che di intensità, attuale, l’eco sarebbe non soltanto locale, con la Libia nuovamente dossier strutturale di instabilità nel Mediterraneo, con impatti immediati su energia, migrazioni (e la strumentalizzazione di queste) e sicurezza europea.