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Israele, Hamas e la fine dell’illusione dei due Stati. Scrive il gen. Del Casale

Di Massimiliano Del Casale

L’approvazione del piano E1 da parte del governo israeliano segna una frattura storica nella crisi mediorientale, con la prospettiva di dividere la Cisgiordania e archiviare definitivamente l’ipotesi dei due Stati. Hamas, pur indebolito, continua a esercitare un controllo capillare sulla società di Gaza, mentre la Lega Araba sorprende con una presa di posizione netta contro i gruppi armati palestinesi. L’Europa resta in bilico, tra crisi parallele e un ruolo sempre più marginale sul piano diplomatico. La riflessione del generale Massimiliano Del Casale

Il mese di agosto 2025 rappresenta uno spartiacque tra un passato nel quale si era sperato di trovare una soluzione negoziale alla crisi mediorientale e la recente decisione, da parte del governo di Gerusalemme, di realizzare il “Blocco E 1” (East 1), il controverso piano urbanistico destinato a collegare Gerusalemme Est con l’insediamento ebraico di Ma’ale Adumim, ai confini del Deserto della Giudea, popolato da oltre 40.000 coloni. Lo scopo è dividere in due la Cisgiordania, evitando ogni possibile saldatura tra le aree urbane di Ramallah, a nord, e di Betlemme, a sud. In tutto, 3.400 unità abitative per nuove famiglie di coloni la cui realizzazione era già stata sospesa nel 2012 per le forti pressioni internazionali sul governo Netanyahu “pro tempore”, anche da parte dell’amministrazione Obama e dall’Unione europea a guida Merkel. In sostanza, un corridoio di abitazioni che dovrebbe investire una superficie di dodici chilometri quadrati. Uno spazio non immenso, ma è la prima volta che un’occupazione abusiva dei territori assegnati dall’Onu all’Autorità Nazionale Palestinese, viene formalmente avviata dal governo israeliano. L’obiettivo strategico di Gerusalemme non è limitato a impedire la nascita di uno Stato di Palestina, affossando definitivamente la proposta dei “due Stati”, ma è addirittura volto a creare le premesse per l’annessione della stessa Cisgiordania. 

Dunque, una vera e propria escalation della crisi, dopo l’avvio del rastrellamento militare sistematico di Gaza. Israele è forte dell’appoggio degli Stati Uniti. Hamas, benché fiaccato, riesce a sopravvivere per più di una ragione. Non si tratta infatti di un semplice gruppo terroristico paramilitare, ma di un’istituzione pienamente compenetrata nella vita sociale palestinese sulla quale esercita un serrato controllo. Possiede ospedali, paga pensioni e indennizzi ai parenti dei miliziani caduti. E non esiste praticamente famiglia, a Gaza, che non abbia un proprio congiunto tra le fila di Hamas. Ecco perché è praticamente impossibile attendersi un sommovimento spontaneo, interno alla comunità gazawi, in grado di spodestare i terroristi. Vi è poi da considerare l’appoggio dei governi amici, come l’Iran o la Turchia (Erdogan definì la strage del 7 ottobre 2023 un’azione “patriottica”) o ancora il Qatar, Paese in cui si ritiene risieda il gotha di Hamas, dal quale sono partite le varie proposte di negoziato per la crisi e dove ha la sua sede Al Jazeera, il network che fornisce la copertura regionale e internazionale delle principali notizie. La rete risulta finanziata dal governo qatariota ed è praticamente l’unica a dare voce ad Hamas e alla sua propaganda, fornendo le immagini e i dati sulle vittime della guerra in atto a Gaza, quotidianamente ripresi, filtrati e diffusi ai media di tutto il mondo. 

Il governo israeliano va quindi avanti per la sua strada, incurante dell’onda di antisemitismo che ha finito per accomunare il governo ultraconservatore di Netanyahu con l’intero popolo ebraico che pure duramente si oppone, in gran parte, alle scelte del proprio leader, temendo per la vita degli ostaggi. Gli Organismi internazionali appaiono incapaci di esercitare un attivo ruolo diplomatico. L’Onu da tempo sembra non avere nemmeno più voce. L’Unione europea non è da meno, attanagliata dai timori per gli imminenti sviluppi dell’altra grave crisi, quella russo-ucraina, e per i dazi di recente applicati dall’amministrazione americana alle merci importate dal nostro continente, magari anche con la prospettiva di vedersi imporre dal presidente Trump ulteriori penalizzazioni commerciali, nell’eventualità dell’adozione di misure economiche contro il governo di Gerusalemme. Le cancellerie europee, sebbene con diverse sfumature, giudicano “inaccettabile” quanto sta accadendo a Gaza. E i Paesi arabi? Ebbene, questa è forse la sorpresa più grande. Con una notizia di rilevanza storica, ma quasi ignorata dal mainstream, il 30 luglio scorso, presso le Nazioni Unite, la Lega Araba — che riunisce 22 Paesi arabi, molti dei quali non solo non hanno ancora riconosciuto lo Stato di Israele, ma lo hanno spesso combattuto nel passato — ha reso noto un documento sottoscritto da tutti i suoi rappresentanti col quale, oltre a denunciare le condizioni nelle quali sono ridotti a vivere i palestinesi di Gaza e a promuovere la “soluzione dei due Stati”, ha condannato senza mezzi termini l’attacco terroristico del 7 ottobre e invitato Hamas a “get out of the way” (più o meno, a “togliersi di mezzo”), a rilasciare gli ostaggi e a deporre le armi. Un’iniziativa epocale, in merito alla quale occorre fare almeno due considerazioni. La prima, intuitivamente immediata, riguarda proprio Hamas. 

Nessun Paese mediorientale è oggi disposto a far da sponda o a supportare i gruppi armati palestinesi. Quando è accaduto nel passato, si è sempre assistito a fenomeni sfociati in tentativi di sovvertire il locale ordine statuale. Accadde in Giordania negli scorsi anni ’70, con la forte reazione del governo che aprì la drammatica stagione di Settembre Nero, ma anche in Libano, in Egitto e in Iraq. Oggigiorno, aiutare Hamas equivale ad alienarsi la comunità internazionale, subendone le conseguenze. Ma vi è una ragione, non sempre tenuta in debito conto, per la quale i palestinesi non sono mai stati amati dal mondo arabo. Ad una gran parte di essi, non di origine mediorientale, viene rimproverato di aver cercato nuovi lidi attraverso i fenomeni migratori, nei duri anni dell’emancipazione dai vari domini coloniali, facendosi attrarre dalle migliori condizioni di lavoro e di vita presenti in Libano e addirittura in Israele, presso i tanti kibbuz del Paese, e sempre approfittando delle tutele, anche economiche, assicurate loro, sino a oggi, proprio dalla Lega Araba e dall’Organizzazione della cooperazione islamica (Oic). I palestinesi non sono infatti un popolo interamente autoctono, tanti appartengono a famiglie provenienti per lo più dai Paesi del Nord Africa, dal Marocco all’Egitto e al Sudan. Paesi che, oggi, non vedono ragioni sufficienti per farsi carico dei bisogni di una moltitudine in larghissima parte discendente da soggetti percepiti come traditori morali della propria Patria. 

Col progetto “Blocco E 1”, sembrano quindi scomparire prospettive di pace in Medioriente. Ma è proprio in tali frangenti che la diplomazia diventa centrale. Si è appena aperta l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che si concluderà il prossimo 23 settembre. Un’occasione unica. Un banco di prova importante pure per i Paesi leader europei, soprattutto qualora l’Unione europea dovesse accusare l’ennesimo passaggio a vuoto, in politica estera. Parigi ha già annunciato, per voce del suo presidente Emmanuel Macron, di aver scelto tale occasione per riconoscere ufficialmente lo Stato di Palestina. Un’altra fuga in avanti di un leader in preda a una crisi politica interna divenuta forse irreversibile. Pare piuttosto giunto il momento di aprire a un processo di pace che inizi subito, facendo anche leva su quelle componenti della società ebraica, presenti sia in Israele che nella diaspora ebraica nel mondo, in grado di incidere — non ultimo, anche finanziariamente — sulle decisioni dell’attuale governo israeliano. Non va dimenticato che il progetto in questione venne già bloccato una prima volta nel 2012 e che il presidente Trump insegue sempre il suo sogno per il Premio Nobel per la Pace. “Intelligenti pauca!”.


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