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Sulle biotecnologie l’Italia ha ancora una carta da giocare. Ecco quale secondo Torlizzi

Di Gianclaudio Torlizzi

Le biotecnologie non sono solo strumenti di cura, ma anche tecnologie dual use, con potenziali applicazioni militari in scenari di guerra ibrida e Cbrn. Per Gianclaudio Torlizzi, consigliere del ministro della Difesa e fondatore di T-Commodity, non possiamo più permetterci di dare per scontato ciò che è essenziale per la nostra salute e la nostra sicurezza

La pandemia ci ha lasciato molte lezioni. Una su tutte: la globalizzazione, così come l’abbiamo conosciuta, è finita. E con essa è tramontata anche l’illusione che si possa esternalizzare tutto – dai principi attivi ai reagenti biotech – e poi far finta di non pagare dazio quando la catena si spezza. Oggi, in un mondo sempre più instabile, le catene del valore sono tornate a essere un’arma geopolitica. E l’Europa, purtroppo, è arrivata a questo appuntamento impreparata.

Il dato è chiaro: secondo la Critical medicines alliance, tra il 60 e l’80% dei principi attivi utilizzati nei farmaci europei proviene da Cina e India. Una dipendenza strutturale che non solo compromette la capacità di risposta a shock sanitari improvvisi – come abbiamo visto con le mascherine e i vaccini – ma mette anche a rischio la nostra sovranità tecnologica in settori ad altissimo impatto strategico. In altre parole, non è più solo una questione industriale, ma di sicurezza nazionale.

Nel frattempo, Pechino non è rimasta a guardare. Negli ultimi anni la Cina ha verticalizzato le sue filiere biotech, ha investito a tappeto in ricerca e sviluppo e ha reso sempre più difficile l’accesso esterno ai propri avanzamenti. E mentre noi continuiamo a dibattere se sia o meno il caso di incentivare la produzione di antibiotici in Europa, Pechino si assicura il controllo sui materiali critici e sulle piattaforme genetiche di nuova generazione. Il risultato? Un’asimmetria sempre più pericolosa tra la nostra apertura commerciale e la loro capacità di chiuderci i rubinetti quando più gli conviene.

Negli Stati Uniti il messaggio è stato recepito. Dietro la retorica dei dazi e delle “relazioni privilegiate” si nasconde una strategia molto più ampia: riportare a casa le produzioni critiche, rafforzare la base manifatturiera nazionale e blindare il biotech come pilastro della sicurezza sanitaria e militare del Paese. Perché è questo il punto: le biotecnologie non sono solo strumenti di cura, ma anche tecnologie dual use, con potenziali applicazioni militari in scenari di guerra ibrida e Cbrn (chimico-biologico-radiologico-nucleare). Chi controlla il biotech controlla anche la capacità di difendersi da minacce non convenzionali.

L’Italia, a differenza di altri partner europei, ha ancora una carta da giocare. Abbiamo eccellenze industriali e scientifiche, una rete di Pmi dinamica e centri di ricerca all’avanguardia. Ma mancano due cose: una visione strategica e una volontà politica capace di trasformare queste risorse in leva geopolitica. Serve un patto tra istituzioni, imprese e accademia per attrarre investimenti, trattenere i talenti e costruire un ecosistema sovrano nel biotech. Non possiamo più permetterci di dare per scontato ciò che è essenziale per la nostra salute e la nostra sicurezza.

Perché in un mondo in cui la frammentazione è la nuova normalità, presidiare le catene del valore significa una sola cosa: sopravvivere.

(Pubblicato su Healthcare Policy 16)


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