Il governo italiano inserisce le reti mobili 4G e 5G tra le tecnologie sensibili del perimetro di sicurezza nazionale. Un atto che sancisce la preferenza per fornitori provenienti da Paesi Ue, Nato o partner atlantici, riducendo la dipendenza da attori extraeuropei, in primis la Cina
Palazzo Chigi ha completato un passo cruciale nella strategia italiana di difesa digitale: le reti mobili 4G e 5G entrano ufficialmente tra le tecnologie sensibili tutelate dal perimetro di sicurezza nazionale cibernetica.
Con un decreto firmato dal Sottosegretario Alfredo Mantovano per conto della Presidenza del Consiglio, pubblicato in Gazzetta Ufficiale, il governo estende le misure già previste dal Dpcm del 30 aprile 2025, introducendo criteri di premialità per fornitori e tecnologie provenienti da Paesi Ue, Nato o partner strategici dell’Alleanza Atlantica.
Un segnale forte ma anche una mossa geopolitica che rafforza l’asse europeo e atlantico riguardo la gestione delle infrastrutture mobili, oggi cuore pulsante di ogni attività economica e amministrativa, che oggi dovrà orientarsi verso attori considerati “affidabili” dal punto di vista della cybersicurezza. Tradotto, significa ridurre progressivamente la dipendenza dalle aziende cinesi nel cuore della rete italiana.
Dopo gli incontri bilaterali tra Giorgia Meloni e Donald Trump, culminati in primavera con un documento congiunto sulla cooperazione tecnologica, l’Italia ha ribadito l’impegno a “proteggere le infrastrutture critiche e le tecnologie sensibili”, privilegiando l’uso di fornitori affidabili. Una formula tecnica che privilegia i partner più stretti ma che sottintende un destinatario specifico: Pechino.
Le aziende cinesi, da Huawei a Zte, controllano ancora una quota rilevante della rete 4G e 5G italiana, oltre all’inserimento per il controllo delle intercettazioni giudiziarie spagnole. E la nuova impostazione normativa, pur senza imporre un “ban” formale, che esporrebbe Palazzo Chigi a ricorsi miliardari, di fatto traccia un corridoio preferenziale per le imprese europee e atlantiche.
L’aggiornamento del decreto è un tassello di una strategia più ampia di resilienza tecnologica nazionale, che mira a rafforzare la filiera interna della cybersicurezza, evitare dipendenze da fornitori esterni a spazi di fiducia come Ue e Nato, e prevenire interferenze potenzialmente ostili nei nodi vitali della connettività italiana.
Seguendo il solco tracciato dagli alleati transatlantici, Roma sceglie di dotarsi di regole che blindano il perimetro digitale, riconoscendo la sovranità digitale e cibernetica come forme di autonomia geopolitica.
L’unione fa la forza
L’impianto del decreto italiano richiama da vicino la logica sottesa al cosiddetto “Buy Transatlantic Act”, la proposta euro-americana che mira a consolidare un mercato comune della sicurezza tecnologica tra le due sponde dell’Atlantico. In entrambi i casi, il principio è quello di privilegiare fornitori provenienti da Paesi alleati, creando un ecosistema industriale chiuso e interoperabile fondato sulla fiducia politica e sulla protezione delle catene del valore strategiche. Non si tratta, ovviamente, di protezionismo, ma di difesa dell’autonomia tecnologica in un contesto globale in cui la competizione economica si traduce sempre più in conflitto di intelligence e controllo dei dati. Così, come Washington spinge per “riconquistare” le proprie supply chain sottraendole all’influenza cinese, Roma sceglie di muoversi lungo un percorso che mira a proteggere l’ossatura digitale del Paese da ingerenze esterne, assicurando che i dati, le reti e i sistemi strategici siano presidiati da attori di fiducia. Dove ogni linea di codice, ogni antenna, ogni fornitura, diventa parte di una strategia di difesa nazionale, l’Italia sceglie ancora una volta di sintonizzarsi con gli alleati europei e atlantici, evitando di incorrere in ulteriori interferenze.