Sin dalle prime ore del 7 ottobre 2023, Giuseppe Dentice, analista Osservatorio sul Mediterraneo (OSMED), Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, commenta con Formiche.net l’evoluzione della guerra a Gaza e del conflitto regionale collegato. Ecco il suo bilancio, a due anni dall’attentato di Hamas che ha scatenato la violentissima reazione israeliana
A due anni dall’inizio della guerra a Gaza e dalla conseguente riconfigurazione degli equilibri (geo)politici in Medio Oriente, Israele e Hamas si trovano oggi davanti a un bivio cruciale: accettare la sfida dei negoziati internazionali o sabotare ancora una volta le trattative, rischiando di innescare una nuova spirale di conflitto.
Nelle ultime settimane gli Stati Uniti, insieme a Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Egitto, Turchia e Giordania, hanno intensificato gli sforzi diplomatici per rilanciare il piano in 20 punti promosso da Donald Trump per la Striscia di Gaza. L’iniziativa, sostenuta in larga parte dai Paesi arabo-musulmani, punta a delineare una nuova cornice politica e di sicurezza per l’enclave palestinese, concepita per procedere “con o senza” l’adesione finale di Hamas.
Il progetto si articola intorno a due pilastri principali. Da un lato, la sicurezza: rilascio immediato degli ostaggi ancora in mano a Hamas, progressiva smilitarizzazione della Striscia, smantellamento delle infrastrutture militari e dei tunnel, esclusione del movimento islamista da ruoli politico-amministrativi. Dall’altro, la ricostruzione: investimenti mirati al rilancio economico, potenziamento delle infrastrutture e creazione di zone economiche speciali, con un orizzonte ancora poco chiaro riguardo al progetto di “riviera” evocato dal presidente americano sin dal suo ritorno alla Casa Bianca. Parallelamente, si ipotizza la creazione di una autorità transitoria a guida internazionale o araba, incaricata di gestire la fase di transizione.
Per i Paesi del Golfo la posta in gioco è duplice: impedire che Hamas continui a detenere il monopolio sulla Striscia, ma al tempo stesso cogliere l’opportunità di ridefinire il loro peso negli equilibri regionali e internazionali. Non a caso, le monarchie arabe stanno cercando di muoversi in stretto coordinamento con Washington e soprattutto con il Cairo, che ha ribadito la necessità di un reale disarmo da parte di Hamas e di un ritorno dell’Autorità Nazionale Palestinese nella gestione del territorio sin dalle immediate fasi post-conflitto.
Dal canto suo, Hamas ha mostrato un’apertura solo parziale: disponibilità al rilascio degli ostaggi e all’eventuale affidamento dell’amministrazione a un’entità tecnica palestinese, ma ferma richiesta di ulteriori negoziati su questioni ritenute essenziali, come i diritti dei palestinesi e il futuro assetto politico di Gaza. Il punto più controverso rimane la smilitarizzazione totale, percepita come una resa incondizionata che lede l’identità stessa del movimento islamista.
In questo contesto, sono partiti il 6 ottobre a Sharm el-Sheik, inEgitto, i negoziati per un cessate il fuoco, basati sul piano statunitense formalmente accettato dal premier israeliano Benjamin Netanyahu e accolto solo in parte da Hamas e definito “promettente” da Trump. Un passaggio che, almeno sul piano simbolico, segna un tentativo di riportare la diplomazia al centro, aprendo una finestra di opportunità per una de-escalation.
Tuttavia, questo non significa che la pace sia più vicina, né che la soluzione a due Stati possa oggi tornare a essere una prospettiva concreta. Al contrario, le fondamenta restano fragili: l’obiettivo immediato appare piuttosto quello di contenere la crisi, evitare una nuova escalation e impedire che il “modello Gaza” venga percepito da Israele come replicabile anche in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Tutto ciò senza però affrontare in profondità le questioni strutturali che continuano a rendere irrisolvibile il conflitto e la stessa questione palestinese.
Due anni dopo uno dei conflitti più sanguinosi della storia recente, il piano americano è al tempo stesso un’occasione e un azzardo, in quanto l’iniziativa potrebbe ridisegnare il futuro di Gaza senza risolvere la questione palestinese nel suo insieme. Tutto dipende da un equilibrio precario: le scelte di Israele, la tenuta del fronte arabo, la disponibilità di Hamas e la capacità degli Stati Uniti di tenere alta la pressione. Una partita aperta con troppe variabili, che potrebbe segnare un nuovo inizio o riportare la regione al punto di partenza.