I meme non sono più solo divertimento: diventano veicoli di radicalizzazione, normalizzano la violenza e rafforzano identità polarizzate. Le democrazie si trovano a dover bilanciare libertà di espressione e sicurezza, sviluppando strumenti per decodificare un linguaggio simbolico sempre più potente. L’analisi della professoressa Sabrina Martucci e del generale Pasquale Preziosa
l termine “meme” (abbreviazione di mimeme, dal greco μίμημα, “ciò che viene imitato”) fu introdotto da Richard Dawkins nel 1976 (Il gene egoista – Oxford University Press), per indicare una “unità di trasmissione culturale” o “unità di imitazione”. Con questo concetto Dawkins intendeva descrivere un’unità culturale di base (ad esempio uno slogan come Yes We Can) che si replica e si diffonde tra gli individui in modo simile a come i geni trasmettono l’informazione biologica.
Con l’avvento di internet e dei social media, il concetto ha acquisito nuove connotazioni. Limor Shifman, in Memes (Mit Press, 2014), definisce i meme digitali come forme culturali collettive ovvero gruppi di contenuti che condividono caratteristiche riconoscibili, che vengono imitati, modificati e ricombinati, diffondendosi rapidamente nelle reti online.
Da elemento ironico e virale, il meme si è progressivamente trasformato in uno strumento ideologico condensato, capace di veicolare complessi messaggi politici attraverso immagini, slogan o frammenti linguistici. La sua caratteristica distintiva risiede nell’immediatezza comunicativa: il meme aggira i filtri razionali, attivando scorciatoie cognitive e colpendo direttamente le emozioni primarie (paura, rabbia, disprezzo, senso di appartenenza). In tal modo, l’assimilazione di contenuti polarizzati avviene con maggiore facilità e quasi in maniera automatica. Proprio la natura imitativa e la rapidità di diffusione rendono il meme uno strumento particolarmente incisivo nei processi di radicalizzazione. In essi l’adesione a un’ideologia si fonda sulla condivisione di narrazioni semplificate e simboli o sull’attivazione di risposte emotive immediate piuttosto che su articolate argomentazioni razionali.
In tale prospettiva, il meme funziona come un trigger cognitivo: non argomenta ma evoca, non spiega ma polarizza, diventando uno strumento di penetrazione psicologica nel contesto digitale.
Il ruolo del meme nella radicalizzazione può essere compreso attraverso almeno tre meccanismi principali di attivazione.
Il primo meccanismo è la normalizzazione della violenza, ossia la ripetizione memetica di slogan e immagini violente che abbassa progressivamente la soglia morale che normalmente inibirebbe l’uso della forza. Il meccanismo della normalizzazione della violenza non è una novità dell’era digitale, ma affonda le sue radici nella propaganda del passato. Durante la Seconda guerra mondiale, ad esempio, manifesti e vignette caricaturali servivano a disumanizzare il nemico, trasformando l’uccisione in un dovere normale e persino legittimo. Nell’ambiente digitale contemporaneo questo schema si riproduce con i meme: video di bombardamenti o attacchi con droni, accompagnati da musiche pop, emoticon o battute, vengono diffusi in forma virale su piattaforme come TikTok e Telegram. In entrambi i casi, la ripetizione di immagini e slogan violenti abbassa la soglia morale che normalmente inibirebbe l’uso della forza, convertendo la violenza in linguaggio condiviso e persino in intrattenimento. Come ha osservato Hannah Arendt, la violenza perde il suo carattere eccezionale quando diventa linguaggio condiviso, inserendosi nella quotidianità fino a sembrare normale. Nei soggetti maggiormente vulnerabili, l’effetto di attivazione cognitiva è favorito da una riduzione della capacità critica e da una propensione ad aderire in maniera acritica alla logica della condivisione, la quale offre un senso immediato di appartenenza comunitaria. Da ciò deriva un processo di amplificazione identitaria: la condivisione di un meme non rappresenta soltanto la diffusione di un contenuto, ma diventa un atto performativo di appartenenza a un gruppo, in altri termini una scorciatoia di performatività. Nei giovani, tale meccanismo assume un peso particolare, poiché la necessità di esibire costantemente la propria adesione simbolica può trasformarsi in una pressione sociale che, invece di favorire l’inclusione, alimenta dinamiche di isolamento e fragilità relazionale. La logica della rapidità di condivisione segnala l’appartenenza e contribuisce, così, a rafforzare la contrapposizione tra in-group e out-group, elemento centrale nei processi di radicalizzazione (Hoffman, 2006). Consolida, altresì, una coesione simbolica che aumenta la polarizzazione; nelle tifoserie calcistiche la circolazione di meme ironici sulle squadre rivali non serve solo a divertire, ma segnala l’appartenenza a una comunità di tifosi, rafforzando la dinamica in-group/out-group e consolidando la coesione identitaria del gruppo.
Infine, il terzo meccanismo è il contagio sociale e l’emulazione: la viralità rende il meme un modello narrativo replicabile. Un giovane instabile può vedere nell’autore di un atto violento un “eroe culturale” e percepire la violenza come opzione praticabile. Come ha descritto Marc Sageman, siamo di fronte a una forma di leaderless jihad, in cui l’ispirazione simbolica sostituisce la gerarchia organizzativa.
L’omicidio di Charlie Kirk mostra come il passaggio dal simbolo digitale all’atto concreto possa avvenire in modo quasi lineare. Le incisioni sui bossoli dell’assassino Bella Ciao, Hey fascista, Catch this, rappresentano la materializzazione di un immaginario memetico largamente diffuso negli ambienti digitali radicalizzati.
L’assassino o il terrorista non inventano un linguaggio, ma lo replicano: trasformano il meme in gesto, l’atto simbolico in azione omicida. In questo senso, il meme funge al tempo stesso da cornice giustificativa e da innesco operativo. Esso rappresenta una modalità addestrativa riconducibile a sistemi fideisticamente veicolati, i quali condividono con la religione o con i credo politici non tanto i contenuti, quanto piuttosto le metodologie di indottrinamento, fondate sulla ripetizione, sull’adesione acritica e sull’ accrescimento graduale del senso di appartenenza.
La celebrazione digitale di atti violenti, dal caso Kirk a quelli di Luigi Mangione e Luca Traini, fino ad alcune rappresentazioni memetiche emerse dopo l’omicidio di Willy Monteiro Duarte, rivela l’esistenza di un vero e proprio ecosistema memetico che alimenta la cultura dell’assassinio. In esso convivono diverse dinamiche: l’eroicizzazione del criminale, in cui il killer diventa simbolo di resistenza, la polarizzazione semantica, dove categorie come “fascista” perdono il loro significato storico e si riducono a insulti generici e la circolazione virale, in cui i contenuti violenti vengono rilanciati fino a trasformarsi in codici identitari.
Questo fenomeno non è esclusivamente statunitense in quanto richiama le strategie jihadiste di propaganda online, come i jihadi memes che trasformano i martiri in supereroi digitali, i forum suprematisti europei, dove circolano contenuti che celebrano Brenton Tarrant o l’attentatore di Halle, e persino le narrazioni eco-terroriste, in cui meme e poster digitali presentano sabotaggi e atti vandalici come gesti eroici a difesa della Terra. La specificità americana risiede tuttavia nell’intreccio tra polarizzazione politica, retorica mediatica e tutela assoluta della libertà di espressione, che ne amplifica la portata.
La difficoltà principale per le istituzioni è che il meme non è immediatamente decodificabile come un manifesto politico esplicito, ma si presenta come contenuto ambiguo, ironico, spesso protetto dal diritto alla libertà di parola. Tuttavia, la sua capacità di normalizzare la violenza e di costruire consenso simbolico lo rende un potenziale strumento operativo delle radicalizzazioni violente ed estremistiche .
Ne derivano tre implicazioni fondamentali. La prima è la “Sfida normativa”, ossia la necessità di bilanciare la libertà di espressione con la prevenzione dell’incitamento implicito alla violenza, come dimostra il caso tedesco del NetzDG, criticato perché rischia di confondere satira e incitamento. La seconda è la “Sfida operativa”, cioè lo sviluppo di una cyber threat intelligence memetica capace di riconoscere linguaggi e simboli che anticipano l’azione violenta, come mostrano i programmi di monitoraggio avviati dopo l’attacco di Christchurch. La terza e più insidiosa è la “Sfida culturale”, che consiste nel contrastare la trasformazione dell’assassinio in oggetto di intrattenimento o eroismo digitale, fronteggiata da campagne di contro-narrativa come quelle del movimento europeo No Hate Speech.
Contrastare la cultura memetica della violenza significa agire su più livelli. Sul piano normativo, non si tratta di reprimere il meme in quanto tale, ma di rafforzare la responsabilità delle piattaforme, distinguendo con maggiore precisione tra satira e incitamento implicito alla violenza. Sul piano operativo, diventa cruciale sviluppare una memetic cyber threat intelligence, in grado di decifrare codici, simboli e linguaggi che anticipano il passaggio dall’ironia digitale all’azione concreta. Sul piano culturale, infine, la sfida più delicata consiste nello smontare l’aura eroica e ludica che accompagna la violenza online, attraverso campagne di contro-narrativa creativa ed educazione al pensiero critico.
Queste sfide non riguardano soltanto la tutela della libertà di espressione o la sicurezza digitale, ma costituiscono veri e propri nodi centrali nelle politiche di prevenzione della radicalizzazione, soprattutto tra i giovani maggiormente esposti a ecosistemi digitali ostili.
Senza un intervento integrato, il meme può rimanere uno strumento ambiguo: da semplice veicolo ironico a leva di radicalizzazione, capace di fondere intrattenimento e violenza in un’unica narrativa.