I numeri dell’agosto 2025 relativi all’export, pur nella loro scarsa rappresentatività stagionale, destano preoccupazione poiché delineano un classico shock delle ragioni di scambio. Il deprezzamento del dollaro e i dazi hanno agito all’unisono per ridurre la redditività delle esportazioni italiane e per spingere le importazioni statunitensi rispetto ad altre fonti di approvvigionamento. Il risultato è stato un crollo delle esportazioni e una fioritura delle importazioni statunitensi. L’analisi di Pasquale Lucio Scandizzo
I dati Istat di agosto 2025 hanno indicato un forte calo dell’andamento commerciale dell’Italia nei confronti dei partner extra-Ue. Le esportazioni sono diminuite del 7,7% rispetto ad agosto 2024 e le importazioni del 3,1%. Il surplus è sceso da 2,8 miliardi di euro a 1,8 miliardi di euro. Questo calo complessivo include una eccezione solo in parte inattesa per il commercio con gli Stati Uniti: mentre le esportazioni verso questo paese sono diminuite del 21,2%, le importazioni sono aumentate del 68,5%. Questa discrepanza bilaterale si è rivelata sufficiente a superare tutti i miglioramenti registrati dall’Italia altrove, in particolare anche un calo registrato nelle importazioni di energia che altrimenti avrebbe aumentato lo squilibrio.
La riduzione delle esportazioni verso gli Stati Uniti non è stata compensata da maggiori vendite verso altri partner commerciali. Al contrario, si è osservato un calo anche nei rapporti con altri mercati extra-Ue. Questo suggerisce che il peggioramento delle ragioni di scambio non riguarda solo il canale bilaterale con gli Usa, ma si estende al commercio dell’Italia con il resto del mondo, sia attraverso una perdita di competitività nei prezzi relativi, sia attraverso un indebolimento della domanda aggregata, alimentato anche dall’incertezza.
Gli effetti sulle esportazioni e sulle importazioni non sono perfettamente separabili perché la domanda e l’offerta dei diversi beni sono interconnesse attraverso le catene del valore e le preferenze dei consumatori. Tuttavia, semplificando una relazione molto complessa, si può dire che, dal lato delle esportazioni, la stessa tariffa può colpire più duramente l’Italia sia perché la domanda per alcuni beni italiani è più elastica, sia perché in molti comparti il valore aggiunto rappresenta una quota elevata del valore totale, amplificando la perdita. Dal lato delle importazioni, invece, prevale un effetto di sostituzione: la combinazione tra dazi e dollaro debole rende le merci americane relativamente più convenienti rispetto a quelle europee e di altri partner, con il risultato che le importazioni dagli Usa aumentano a spese delle altre fonti di approvvigionamento.
Questi dati rivelano quindi l’effetto ancora incerto di un duplice shock: i dazi statunitensi contro i prodotti europei e il deprezzamento del dollaro rispetto alla sua controparte europea, l’euro. Entrambi questi eventi hanno peggiorato i termini dello scambio per l’Italia rispetto agli Usa, riducendo il rapporto tra prezzi all’esportazione e prezzi all’importazione, peggiorando la convenienza media ad esportare e migliorando quella a importare. Poiché i fattori produttivi importati godono spesso di tariffe più basse o nulle, questo effetto in termini di valore aggiunto italiano è più pronunciato della tariffa nominale in settori importanti come la chimica, i macchinari e l’Ict. La debolezza del dollaro rispetto all’euro ha rafforzato questo impatto: i prodotti statunitensi sono diventati meno costosi in termini di euro, stimolando le importazioni, mentre gli esportatori italiani hanno raccolto meno euro per dollaro di vendita statunitense.
Per quanto riguarda le ragioni di scambio, il calo dei termini dello scambio dei prezzi (i cosiddetti price terms of trade) è stato evidente. I prezzi all’esportazione sono diminuiti: i dazi hanno frenato i proventi delle esportazioni in euro mentre le importazioni statunitensi sono diventate più convenienti. Il calo del volume delle esportazioni, in particolare verso gli Stati Uniti, e la crescita delle importazioni statunitensi hanno inoltre comportato che l’Italia potesse acquistare meno importazioni dai proventi delle sue esportazioni. Le ragioni di scambio dei redditi (i cosiddetti income terms of trade) sono diminuite a causa di due effetti distinti: i prezzi relativi si sono ridotti e i rapporti tra quantità esportate e quantità importate sono anch’essi diminuiti. Benché agosto non sia un periodo dell’anno rappresentativo e presenti generalmente scambi ridotti, rimane il fatto che nel giro di un mese si è verificata un’inversione di oltre 3 miliardi di euro dell’avanzo bilaterale dell’Italia nei confronti degli Stati Uniti.
L’incidenza settoriale di tali effetti è estremamente disomogenea e dipende dalle quote di valore aggiunto, dalla reazione degli importatori americani e dalle elasticità dei consumi rispetto ai prezzi. Le esportazioni agroalimentari come il formaggio, che dipendono fortemente dagli input locali, si fanno carico dell’impatto delle tariffe quasi completamente sul valore aggiunto e sostengono oneri più modesti. I settori dei macchinari che sono stati il punto di forza dell’Italia incorrono in tariffe effettive probabilmente superiori al 20 per cento. I prodotti farmaceutici e chimici che dipendono fortemente da sostanze intermedie che devono essere importate subiscono oneri di quasi il 28%. I settori Ict ed elettronica possono essere soggetti a oneri pari a quasi il 25%. In tutti questi casi, i dazi e il deprezzamento del dollaro significano margini compressi, minore competitività e minori quantità di esportazioni. Dal lato delle importazioni i prodotti Usa diventano più competitivi, sottraendo domanda interna.
Da un punto di vista macroeconomico, con le esportazioni verso l’America che rappresentano circa il 3,3 per cento del PIL italiano, il calo di agosto, se si prolungasse a un intero anno, corrisponderebbe a una perdita di 15 miliardi di euro, vicino allo 0.7 per cento del PIL. Tenendo conto di fattori di compensazione come il calo delle importazioni di energia e il potenziale riorientamento dei mercati (che però prende tempo e per il momento sembra essere negativo), una valutazione più ottimistica pone il danno potenziale alla crescita del Pil nei prossimi 12 mesi tra -0,3 e -0,4 per cento. Ciò coglie i fattori diretti delle esportazioni nette e la perdita indiretta di reddito nazionale a causa del deterioramento delle condizioni di scambio. Secondo le informazioni dell’Ocse, inoltre, le tariffe effettivamente pagate si rivelano spesso inferiori rispetto alle tariffe stabilite dalla legge: mentre le tariffe reciproche ufficiali medie raggiungono quasi il 18%, le quote effettivamente riscosse si riducono a meno del 10% a seguito di esenzioni, ritardi nell’applicazione e riclassificazioni della catena di approvvigionamento.
D’altra parte, le stime di cui sopra non tengono conto delle perdite di efficienza causate dai dazi e dalle distorsioni dei tassi di cambio: cattiva allocazione delle risorse, perdite inerziali e mancati guadagni di produttività. Questi costi invisibili colpiscono gli investimenti e la crescita a lungo termine, oltre alla matematica a breve termine delle bilance commerciali. In conclusione, i numeri dell’agosto 2025, pur nella loro scarsa rappresentatività stagionale, destano preoccupazione poiché delineano un classico shock delle ragioni di scambio. Il deprezzamento del dollaro e i dazi hanno agito all’unisono per ridurre la redditività delle esportazioni italiane e per spingere le importazioni statunitensi rispetto ad altre fonti di approvvigionamento. Il risultato è stato un crollo delle esportazioni e una fioritura delle importazioni statunitensi, in un quadro congiunturale che vede la domanda esterna aggregata dell’Italia complessivamente ridursi insieme con una rapida perdita del surplus commerciale. Il costo quantificabile in termini di PIL minaccia di cementare svantaggi strutturali per i settori dell’industria italiana basati sulle esportazioni. Per contro, la forte crescita delle importazioni dagli Stati Uniti tende a neutralizzare in parte l’effetto espansivo che minori esportazioni potrebbero avere per la domanda interna, poiché una quota maggiore della spesa viene assorbita da beni esteri invece che sostenere la produzione nazionale.