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Next Generation Eu, quali risultati e quali prospettive. L’analisi di Scandizzo

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Il Next Generation EU ha sostenuto la crescita europea, ma con risultati diversi: Spagna e Portogallo ne hanno tratto benefici duraturi grazie a piani mirati, mentre l’Italia, frenata dalla frammentazione del Pnrr, mostra effetti limitati. Per trasformare la stabilità in sviluppo duraturo serve una programmazione europea permanente degli investimenti. L’analisi di Pasquale Lucio Scandizzo

L’Europa alla prova del NGEU

Il Documento Programmatico di Finanza Pubblica per il 2026 ha riacceso il dibattito sul bilancio del Next Generation Eu (NgEu), il più grande esperimento di politica economica mai tentato dall’Unione Europea. Nato come risposta comune alla crisi pandemica, il NgEu è stato concepito per unire stimolo alla domanda, trasformazione strutturale e coesione territoriale. Per l’Italia, che ne è il principale beneficiario, questo piano rappresenta una scommessa cruciale: un test sulla capacità del Paese di usare risorse europee non solo per sostenere la congiuntura, ma per avviare un vero cambiamento di modello di sviluppo.

Dopo quattro anni, la sfida rimane aperta. Le stime della Commissione Europea per il 2025-2026 indicano tassi di crescita ancora differenziati tra i tre principali beneficiari mediterranei del NgEu: Spagna +2,6%, Portogallo +1,8%, Italia +0,7%. Tuttavia, questi scarti non sono solo un effetto del piano europeo, ma anche la prosecuzione di tendenze preesistenti. Prima della pandemia, tra il 2015 e il 2019, la Spagna cresceva in media dell’1,9% annuo, il Portogallo dell’1,8%, mentre l’Italia si fermava intorno allo 0,3%. Il NgEu ha dunque attenuato, ma non cancellato questo divario: il differenziale di crescita resta, ma è oggi più contenuto di quanto sarebbe stato senza la spinta europea. Le proiezioni attuali sembrano indicare la tendenza a una “nuova normalità”, non particolarmente esaltante per il nostro Paese, ma comunque in miglioramento rispetto al passato: una Spagna stabilmente sopra il 2%, un Portogallo vicino a quella soglia, e un’Italia intorno all’1%. In questo quadro, il NgEu ha evitato un ulteriore allargamento del gap e ha contribuito a stabilizzare l’economia italiana, senza tuttavia realizzare la piena convergenza, che appare possibile solo per i paesi in cui capitale pubblico e capitale privato riescono a interagire in modo sinergico.

Diverse strategie, diversi risultati

Secondo la Banca Centrale Europea, l’efficacia del NgEu dipende da tre elementi: capacità di spesa, qualità degli investimenti e riforme. Proprio su questi fronti si osservano differenze nette tra Italia, Spagna e Portogallo. La Spagna ha gestito il piano con un’impostazione fortemente centralizzata e orientata a pochi obiettivi strategici. Oltre due terzi dei fondi sono stati assegnati a transizione verde e digitale, e gran parte delle risorse è confluita in grandi programmi settoriali integrati, dedicati a mobilità sostenibile, salute digitale, microelettronica e idrogeno verde. Questa concentrazione settoriale e strategica ha prodotto effetti di trascinamento sull’intero sistema economico, amplificati dal forte coinvolgimento delle imprese: secondo la Banca di Spagna, il 45% dei progetti aziendali non sarebbe partito senza il NgEu, e un altro 31% si sarebbe realizzato solo parzialmente. Il risultato è una crescita stabile, trainata dall’innovazione e da un effetto moltiplicatore persistente.

Il Portogallo ha seguito un percorso simile, ma con risultati sorprendentemente solidi in rapporto alle dimensioni del piano. Il suo Piano de Recuperação e Resiliência (Prr), pari al 12,9% del Pil, concentra oltre il 60% delle risorse su energia rinnovabile, digitale e istruzione. La gestione, accentrata in una struttura unica presso il Ministero del Planeamento, è considerata tra le più efficienti d’Europa: più del 70% dei fondi era già stato speso alla fine del 2024. Secondo le valutazioni più recenti del Banco de Portugal e di altri centri di ricerca europei, il Prr presenta moltiplicatori fiscali di medio periodo compresi tra 1,7 e 2,0, con effetti cumulati sul Pil potenziale pari a circa 0,4–0,5 punti percentuali annui. In altri termini, ogni euro investito genera fino a due euro di reddito aggiuntivo, distribuiti su più anni, grazie alla rapidità di esecuzione, alla forte integrazione con gli investimenti privati e alla selettività dei progetti, concentrati su pochi settori ad alto contenuto innovativo e capacità di trascinamento.

L’Italia, invece, ha scelto un’impostazione più inclusiva ma anche più frammentata: il Pnrr è composto da migliaia di progetti eterogenei, spesso di piccola scala e distribuiti tra ministeri, regioni e comuni. Pur garantendo una diffusione capillare dei benefici, questa dispersione ha ridotto la capacità del piano di agire come motore di trasformazione. Le risorse sono state indirizzate in larga parte verso infrastrutture fisiche e costruzioni, investimenti utili ma con ritorni economici lenti e dipendenti dalla capacità esecutiva locale.

I modelli economici: un impatto reale ma limitato

Due modelli economici presentati nel 2025: il Meg-Sd (Università di Verona e Università di Roma Tor Vergata) e il Nmods della Svimez, aiutano a misurare l’effetto del Pnrr sulla base dei dati preliminari disponibili. Secondo il Meg-Sd, il piano italiano, pari al 9,6% del Pil, può generare una crescita cumulata rispetto alla traiettoria senza gli investimenti del piano, di 2,5-3 punti tra 2022 e 2026. Tuttavia, in assenza di un forte crowding-in del capitale privato, l’effetto resta congiunturale: si esaurisce quando termina la spesa pubblica. Solo in uno scenario di crescita endogena, con le infrastrutture che riescono a stimolare nuovi investimenti privati, i benefici diventerebbero permanenti, specialmente nel Mezzogiorno.

Il modello Nmods conferma questa diagnosi e mostra l’origine del problema: Nel Centro-Nord, gli investimenti privati crescono di +11,8% grazie ai trasferimenti di capitale alle imprese e agli incentivi all’innovazione; Nel Mezzogiorno, l’aumento è concentrato sulle opere pubbliche (+23,1%), mentre il settore privato resta debole (+7,3%). Il Pil cresce in entrambe le aree (+2,8% al Nord e +2,3% al Sud), ma dopo il 2026 lo stock di capitale industriale continua a salire al Nord e cala di nuovo al Sud. Conclusione: il Pnrr riduce solo temporaneamente il divario territoriale.

Un piano frammentato, un dibattito antico

Le difficoltà italiane riflettono anche un dibattito politico e culturale irrisolto: quello tra visione strategica nazionale e approccio decentrato. Già nella fase di elaborazione del Pnrr, Svimez chiedeva una cabina di regia centrale, capace di garantire coerenza e coordinamento e di sostenere le amministrazioni meridionali più fragili. Confindustria, a sua volta, criticava l’assenza di una visione industriale di lungo periodo e la frammentazione in bonus e micro-interventi. Altri attori, come Banca d’Italia, Corte dei Conti e Cassa Depositi e Prestiti, sollecitavano una governance forte ma snella, con un coordinamento centrale e attuatori tematici qualificati. Le autonomie regionali, al contrario, rivendicavano maggiore protagonismo, temendo che un’eccessiva centralizzazione penalizzasse la partecipazione dei territori. Il risultato fu un compromesso: una regia nazionale a Palazzo Chigi, ma ampia delega attuativa a regioni e comuni. Una scelta che ha garantito inclusione, ma ha anche moltiplicato le complessità operative.

Resilienza negativa e trappola della stabilità

La struttura produttiva e amministrativa italiana, pur solida, resta poco capace di trasformare gli stimoli in crescita duratura, e questo spiega perché gli effetti del Pnrr si manifestino più sul lato della domanda che su quello dell’offerta. L’Italia rappresenta un caso emblematico di “resilienza negativa”: un sistema stabile ma privo di slancio, in cui la bassa dinamica salariale e la concentrazione del reddito comprimono la classe media e limitano l’espansione endogena della domanda. La frammentazione produttiva in una miriade di piccole imprese e la molteplicità dei centri decisionali pubblici assicurano una notevole capacità di resistenza agli shock, ma riducono la prontezza e la coerenza delle risposte agli impulsi positivi. Il risultato è una forma di stagnazione stabile, in cui l’economia non regredisce ma nemmeno evolve, restando intrappolata in un equilibrio che garantisce sopravvivenza, ma non progresso.

Oltre il Pnrr: verso una nuova agenda europea

La lezione del NgEu è duplice. Da un lato, l’Europa ha dimostrato che può agire come attore economico unito, finanziando per la prima volta un grande programma comune di investimenti e riforme. Dall’altro, ha reso evidente che la programmazione europea degli investimenti deve diventare permanente, non episodica. Per l’Italia, il dopo-2026 dovrà puntare sulla mobilitazione del capitale privato, soprattutto per finanziare capitale intangibile, ricerca, formazione, innovazione e partenariati pubblico-privati, trasformando la spesa in produttività. Per l’Europa, la sfida è più ampia: costruire una strategia industriale condivisa, capace di sostenere autonomia tecnologica e competitività.

In questo contesto, l’urgenza di una difesa europea comune può diventare il motore di un nuovo slancio integrativo: un settore strategico dove convergono innovazione, filiere industriali e interessi collettivi. Come accadde con l’aerospazio negli anni Sessanta, un progetto di difesa condiviso potrebbe generare ricadute economiche, tecnologiche e occupazionali tali da avviare una nuova fase di crescita e coesione europea.

In sintesi, il Next Generation Eu ha prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Europa mediterranea, ma con intensità e tempi diversi. Nel medio periodo, i moltiplicatori degli investimenti pubblici risultano ampiamente superiori all’unità, attestandosi tra 1,5 e 2,5 a seconda della composizione e della qualità della spesa. La Spagna e il Portogallo, che hanno concentrato oltre due terzi delle risorse su digitale e transizione verde, mostrano oggi effetti cumulativi di 1,8–2,5 euro di Pil aggiuntivo per ogni euro investito, grazie all’elevato coinvolgimento delle imprese e a piani strategici integrati. L’Italia, pur avendo beneficiato di una spinta iniziale maggiore di quella degli altri Paesi mediterranei, risente di una maggiore dispersione progettuale e di una più debole leva privata. Le previsioni/stime per i suoi moltiplicatori cumulati si collocano tra 1,3 e 1,5, inferiori a quelli di Spagna e Portogallo ma comunque significativi, a conferma di un effetto espansivo reale. I ritardi esecutivi e alcune inefficienze amministrative restano tuttavia elementi preoccupanti, che riducono la tempestività e l’impatto complessivo degli interventi.

In conclusione, benché i risultati che possiamo valutare riguardino solo la prima fase del Piano e anche per questa siano del tutto preliminari, il Next Generation Eu appare aver svolto un ruolo decisivo nell’offrire un orizzonte di stabilità e di crescita all’economia europea e nel favorire una maggiore convergenza reale tra gli Stati membri, in una fase complessa sul piano economico e geopolitico. Trasformare questa stabilizzazione in crescita strutturale e duratura non sarà però possibile senza avviare una programmazione europea permanente degli investimenti, in grado di armonizzare politiche industriali, innovazione e coesione territoriale, rendendo l’Unione non solo più resiliente, ma anche più competitiva e autonoma.


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