La gray zone è ormai una forma stabile di competizione strategica tra potenze, proxy e attori criminali. Per contrastarla occorre un approccio integrato, capace di illuminare le zone d’ombra in cui la guerra ibrida prende forma
Dai terreni contesi dell’Artico e del Mar Cinese Meridionale, passando per le infrastrutture subacquee e strategiche nel Baltico e per gli snodi aeroportuali, cibernetici, logistici e militari europei, le aggressioni sottosoglia si stanno moltiplicano. Sono episodi che non arrivano mai a configurare un atto di guerra, ma che ne riproducono in scala ridotta effetti strategici.
Azioni che minano infrastrutture, diffondono disinformazione, influenzano l’opinione pubblica e testano le difese degli Stati democratici, a cominciare dall’integrità cognitiva dei cittadini per per puntare alla sicurezza epistemica degli interi sistemi.
Tutto questo senza dichiarazioni formali di conflitto e in uno spazio operativo che si colloca tra la pace e la guerra e che permette agli avversari di perseguire obiettivi strategici, territoriali, economici, politici e cognitivi, senza superare la soglia che farebbe scattare una risposta militare convenzionale. La gray zone è una dimensione nebbiosa, nella quale si intrecciano contro-diplomazia, attacchi cibernetici, campagne di disinformazione, sabotaggi a bassa intensità e uso di attori di facciata o di agenti usa e getta.
L’ambiguità è il metodo
Mercantili con bandiera di comodo che, trascinando l’ancora nel Baltico, danneggiano una pipeline e alcuni cavi in fibra ottica che collegano le capitali del Nord Europa. Le comunicazioni vacillano, i pagamenti digitali rallentano, le borse oscillano. Nessun colpevole certo e nessun responsabile certamente individuabile.
Lo schema si ripete, in scenari differenti e con obiettivi differenti, per tutta l’Europa e non solo. In America, Il pre-posizionamento strategico degli attori cibernetici cinesi attraverso l’operazione Salt Typhoon; in Europa, incendi dolosi, operazioni di spionaggio e sabotaggio effettuate da attori – individuali o collettivi – reclutati online e ricondotti a reti di influenza legate a servizi di intelligence ostili e l’utilizzo di criminalità locale come proxy.
Tutto avviene senza sparare un colpo, ma la somma degli interventi modifica gli equilibri, corrode la percezione collettiva, vizia i processi percettivi, informativi ed operativi.
L’intelligenza artificiale amplifica poi le operazioni cognitive. La produzione di contenuti sintetici e verosimili come testi, video, immagini, permette di orientare l’opinione pubblica, influenzare elezioni e confondere la percezione della realtà.
Agire sottosoglia
Cina e Russia, ma anche potenze medie come Iran, Turchia e Corea del Nord, adottano approcci sempre più aggressivi ma calibrati per rientrare all’interno dei parametri della zona grigia. La guerra in Ucraina ha mostrato come il conflitto convenzionale tra potenze comporti perdite materiali e reputazionali difficilmente sostenibili. Di conseguenza, cresce l’uso di strumenti asimmetrici che consentano di colpire senza esporsi. L’accesso a tecnologie dual use come droni commerciali, software di intrusioni informatiche, sistemi di deepfake, consente poi anche ad attori non statali o a Stati con risorse limitate di produrre effetti strategici significativi. E le tecnologie di offuscamento e crittografia rendono più complessa l’attribuzione, favorendo la deniability.
Oltre ai sistemi ad utilizzo duale, anche la guerra surrogata è entrata a pieno all’interno del modus operandi ibrido. Mercenari, criminalità organizzata, società di copertura, perfino gruppi politici di natura estremista, fanno da moltiplicatori, consapevoli o inconsapevoli, di forza, moltiplicando fattori di ambiguità riguardo possibili legami con apparati statali e modellando la percezione dell’insicurezza negli scenari obiettivo.
Le democrazie liberali, vincolate da norme di diritto internazionale e da processi decisionali lenti, faticano a reagire con rapidità. Gli attori ostili hanno capito che nella gray zone il rapporto tra rischio e beneficio pende nettamente a loro favore: costi d’attacco bassi, costi di difesa alti, responsabilità minima ed effetto massimo.
Guerra delle ombre
Al cuore delle operazioni nella gray zone, la competizione per il controllo delle percezioni e dei processi decisionali, il cui obiettivo non è distruggere infrastrutture ma alterare il modo in cui cittadini e istituzioni interpretano la realtà, erodendo coesione interna e consenso tra alleati.
Le campagne di disinformazione e manipolazione sfruttano l’iperconnettività, inondano i canali digitali con input cognitivi contraddittori, creando nebbia e rumore all’interno degli ecosistemi informativi e indebolendo non solo la fiducia collettiva degli Stati democratici, ma anche la loro capacità di agire.
Come reagire
Contrastare la gray zone richiede un approccio multilivello, che combini analisi intelligence, diplomazia, cyberdifesa, diritto e comunicazione strategica. E che, soprattutto, riesca a portare luce e chiarezza lì dove ambiguità, incertezza e nebbia percettiva amplificano gli effetti delle minacce. Se tutto, dai dati energetici alle percezioni collettive, è terreno di scontro, allora tutto è strumento di difesa. E la cooperazione degli Stati europei e degli Alleati atlantici, assieme all’unione degli approcci whole of society e whole of government, e all’attività di formazione e informazione sulle minacce ibride da parte dei governi potrà portare alla luce conflitti che più male se lasciati al buio.
















