La verità, anche quando è scomoda, lenta o complessa, è l’unica infrastruttura che permette la crescita collettiva. Per questo la scienza non può limitarsi a essere un luogo di competenze: deve essere un luogo di onestà pubblica. L’intervento di Valentina Mantua, scienziata con esperienza internazionale nel campo della regolazione e della valutazione delle evidenze scientifiche, a conclusione dell’incontro di Formiche e Healthcare Policy “La Bussola della Scienza. Orientarsi fra (falsi) miti e post-verità”
La scienza non esiste nel vuoto. Vive sempre dentro un patto sociale, spesso implicito, che tiene insieme ricercatori, istituzioni, cittadini, media e tecnologia. E ogni società rinegozia questo patto in modo diverso, secondo la propria storia, le proprie paure, i propri traumi collettivi.
In questo rapporto, la paura gioca un ruolo decisivo. Durante la pandemia abbiamo visto come la paura possa generare comportamenti potenti: prudenza, ma anche chiusura, aggressività, disinformazione. Eppure la paura non è un errore, né un’emozione da rimuovere. È una funzione evolutiva fondamentale. Darwin lo aveva già intuito: non sopravvive la specie più forte, ma quella che percepisce meglio i rischi e si adatta più rapidamente. La paura, biologicamente, è un sistema di allerta. Anche nel rapporto con la scienza: le persone hanno paura quando non capiscono, quando non vedono il processo, quando non riconoscono chi parla con loro, quando non percepiscono un senso di cura reciproca.
Se la paura ci protegge, è la verità che ci permette di evolvere. Non la verità assoluta — che nessuno possiede — ma la ricerca della verità. È un vantaggio evolutivo. Le società che prosperano sono quelle che hanno sviluppato metodi affidabili per distinguere il vero dal falso, per correggersi, per apprendere dai propri errori. Il metodo scientifico rappresenta una delle più grandi innovazioni evolutive della nostra specie: un meccanismo collettivo che ci consente non solo di sopravvivere, ma di fiorire. Karl Popper lo riassumeva con grande lucidità: “Possiamo sbagliare — e imparare a sbagliare meglio”. L’errore non indebolisce la scienza: la fa progredire.
Dalla mia esperienza americana ho tratto una convinzione chiara: nessuna società fiorisce nell’illusione. L’illusione non è un semplice sbaglio, ma una prigione. Bertrand Russell avvertiva che “le illusioni sono pericolose perché, a differenza degli errori, non permettono l’apprendimento.” Le società che preferiscono narrazioni rassicuranti a fatti verificabili non diventano più libere: diventano più fragili. La verità, anche quando è scomoda, lenta o complessa, è l’unica infrastruttura che permette la crescita collettiva. Per questo la scienza non può limitarsi a essere un luogo di competenze: deve essere un luogo di onestà pubblica.
La fiducia nella scienza non è una dichiarazione, ma un processo. Un patto che si rinnova ogni giorno, soprattutto quando la paura prevale. Quando la paura supera la ragione, il pericolo non è solo credere a informazioni scorrette, ma ritirarsi: smettere di fare domande, scegliere il conforto invece della comprensione. Ed è proprio in quei momenti che la scienza deve compiere il suo passo più difficile: avvicinarsi alle persone, non allontanarsene. Non chiedere fede cieca, ma occupare nuovi spazi di comunicazione: più trasparenti, più accessibili, più partecipativi. La verità non si impone. Si accompagna. Si spiega. Si rende comprensibile anche sul piano emotivo, non solo su quello razionale.
Viviamo inoltre un paradosso tipicamente contemporaneo: le stesse tecnologie che amplificano la disinformazione possono diventare strumenti potenti per amplificare la conoscenza. Le forme avanzate di intelligenza artificiale, se usate con responsabilità, possono creare nuovi ponti tra scienza e cittadini: tradurre linguaggi specialistici in linguaggi comuni, personalizzare le spiegazioni sui dubbi reali delle persone, raggiungere chi è distante, isolato, diffidente. Usata così, la tecnologia non è un megafono: è un amplificatore di chiarezza. E quando la paura cresce, la risposta non può essere chiedere fiducia passiva. La risposta è più trasparenza, più dialogo, più verità. La verità conquista spazio non con l’autorità, ma con l’autenticità. Non vincendo lo scontro, ma aprendo la conversazione.
Alla fine, resta un’idea semplice: la verità non è mai perfetta, ma è l’unico terreno solido su cui possiamo costruire qualcosa che duri. Nessuna società è mai fiorita nella menzogna. Fioriamo quando accettiamo che la paura è parte del cammino, ma la verità è parte della crescita. E fioriamo soprattutto quando ricordiamo — come osserva Yuval Noah Harari — che la democrazia è un dialogo continuo. La scienza, con la sua forza e le sue vulnerabilità, contribuisce esattamente a questo: alimenta quel dialogo collettivo che deve rimanere vivo, aperto e coraggioso, se vogliamo davvero crescere insieme.
(L’autrice partecipa a questo dibattito e firma il presente articolo esclusivamente a titolo personale. Le opinioni espresse non riflettono le posizioni o le politiche della Food and drug administration né di alcuna agenzia governativa statunitense)







