La riforma del Csm vuole rafforzare l’indipendenza dei giudici, separando le carriere e introducendo il sorteggio dei membri. L’obiettivo è superare le correnti interne e ridurre l’influenza politica. Un passo verso una magistratura più terza e trasparente, dopo anni di rinvii, il tema torna al centro del dibattito: Il referendum potrebbe sancire una svolta per la giustizia italiana. L’opinione del costituzionalista, ordinario all’università della Tuscia, Alessandro Sterpa
Pensatevi davanti ad un giudice che è chiamato a decidere se limitare o meno la vostra libertà. Quale è la cosa più importante in quel momento per l’individuo interessato e per l’intero sistema giuridico? Che la decisione sia assunta da una persona che svolga seriamente e liberamente il proprio lavoro.
Con “disciplina e onore” – come vale per tutti i funzionari pubblici secondo l’art. 54 della Costituzione – ma anche garantendo nello specifico che quel funzionario sia un giudice “terzo e imparziale” (art. 111 Cost.).
Insomma, tutti ci aspettiamo di trovarci al cospetto di un funzionario dello Stato che sia preparato e che non sia condizionato da altri: che sia in grado di decidere liberamente applicando il diritto.
Sulla preparazione giuridica possiamo dichiararci sereni visto che vi è – in Italia – un complesso di regole che ha conservato in magistratura un elevato tasso di professionalità, sia per la struttura dei concorsi che in ragione delle successive attività formative durante il servizio.
Il magistrato anzi è spesso uno studioso di alto livello che fornisce rilevanti contributi scientifici.
Il problema – invece – è per tutto il resto allorché si tratta di scovare e ridurre le minacce – a volte quasi invisibili – che vengono da più fronti a pregiudicare la terzietà e l’imparzialità del giudicante, sia che debba decide su misure prima del processo, sia che debba farlo durante il processo nei vari livelli di giurisdizione.
Come per ogni essere umano, le minacce alla sua terzietà e all’indipendenza della funzione possono venire da così tante condizioni che il diritto può solamente in parte intercettarle e regolarle, dovendo anche affidarsi fiduciosamente all’autonomia del giudice.
Ma dove riesce a incidere è bene che il diritto intervenga.
Se un individuo divenuto giudice è corruttibile, infatti, il diritto può fare poco se non impedire la tentazione del reato garantendo uno status adeguato alla funzione di magistrato ed esercitando controlli e comminando sanzioni; se è un soggetto politicamente attivo o ha una fede ideologica che lo condiziona nel suo lavoro, il diritto può porre alcuni argini, impedire l’adesione ai partiti, regolare gli incarichi “politici” ed elettivi, vigilare sulle cause di incompatibilità anche territoriale: difficile poter andare oltre.
Per le restanti minacce di mancanza di terzietà e indipendenza, infine, il sistema giuridico protegge oggi (e proteggerà anche dopo la riforma) tutti i magistrati (giudicanti e requirenti) dal potere esecutivo in ragione del fatto che alla vita professionale dei magistrati ordinari (civili e penali) presiede il CSM come organo di autogoverno e il Ministero della Giustizia ha competenze solo relativamente all’organizzazione del sistema giudiziario.
Possiamo dire che la riforma della “distinzione” costituzionale delle carriere in magistratura e dei CSM contribuirà a ridurre alcune di queste minacce “meno visibili” che possono operare “di fatto” e che oggi possono essere disinnescate – se presenti – solo dalla forza morale e professionale dei soggetti giudicanti.
Perché riformare il CSM ha a che fare con il diritto di tutti gli individui ad un giudice terzo e imparziale e la ragione è semplice: il giudice davanti al quale ci troviamo e dal quale attendiamo la decisione che riguarderà la nostra libertà, la nostra vita e i nostri affetti più cari è sottoposto alle decisioni del CSM; presso quell’organo quel giudice è collocato o confermato nella propria sede di lavoro e sempre al CSM si decide di premiarlo o meno con incarichi direttivi e semi-direttivi in quel Tribunale o in altri; ancora nell’organo di autogoverno si decide nel caso sia sottoposto a procedimento disciplinare e, infine, in quella sede si determina riguardo le autorizzazioni agli incarichi esterni che chiede di svolgere.
Ed è giusto che sia così visto che il CSM è previsto in Costituzione proprio affinché i magistrati si autogovernino e restino indipendenti da ogni altro potere dello Stato.
Vi è però un rischio che il diritto, per quanto possibile, intende con la riforma eliminare e riguarda il fatto che a “giudicare il giudice che sta giudicando su di un cittadino” potrebbero essere un organo che è dominato dall’organizzazione per “liste” (le famose “correnti”) che hanno partecipato alle elezioni per la sua composizione e nelle quali i magistrati requirenti hanno avuto spesso in questi anni un ruolo di leadership.
Da quando abbiamo iniziato ad eleggere i rappresentanti di classe o di istituto a scuola, infatti, tutti noi abbiamo imparato come le competizioni selettive (ossia le elezioni) dividono e stabilizzano fratture tra le persone, creano o rafforzano divisioni culturali, sociali, politiche o di altro tipo.
Non si comprende perché le liste concorrenti per il CSM non avrebbero dovuto avere lo stesso effetto per quest’organo: e infatti lo hanno avuto.
Ciò può comportare che la decisione dell’organo sul nostro giudice possa risentire di queste dinamiche in mille modi lasciando il funzionario della Repubblica del quale si pretendono la terzietà e l’imparzialità in una condizione che può non essere facile gestire quando magari deve smentire, decidendo un caso concreto, le tesi del pubblico ministero.
La riforma approvata prova a risolvere la questione in radice: due CSM distinti nei quali l’autogoverno si svilupperà in modo distinto tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti ossia senza il rischio che una delle due componenti influisca sull’altra; membri non più eletti ma estratti a sorte da elenchi di soggetti qualificati e quindi che non risponderanno né agli elettori, né agli organizzatori della lista di appartenenza.
Si dice che l’estrazione è un rischio. Certamente in astratto può esserlo, ma dipende dalle competenze dell’organo a cui si applica: estrarre a sorte i parlamentari, ad esempio, è semplicemente incostituzionale perché viola la selezione democratica dell’indirizzo politico e dei rappresentanti della nazione ossia non si può applicare ad una attività dove “uno non vale uno” tanto per capirci.
Nel caso del CSM non vi è alcun indirizzo politico da sostanziare e quindi il sorteggio riduce l’organizzazione di tipo “correntizio” per lasciare spazio – progressivamente tutto lo spazio – solo alle valutazioni di merito nelle decisioni da prendere.
Certo, fa sorridere che oggi contro l’estrazione a sorte di una parte dei membri del CSM (dove essa opererebbe a favore di Costituzione, depoliticizzando l’organo) si schieri chi qualche anno fa aveva proposto l’estrazione a sorte dei parlamentari (ossia i componenti dell’organo politico per eccellenza) dei quali si voleva anche minare la libertà di mandato con improbabili (e nulle) sanzioni pecuniarie per i “cambi di casacca”.
Come fa sorridere ancora oggi, con amarezza, il fatto che nel 1999 il Parlamento non riuscì a completare la riforma costituzionale della giustizia.
In quel caso si riformò solo una parte delle norme costituzionali sull’ordinamento giudiziario rafforzando la necessità di un giudice terzo e imparziale in un processo “giusto” per durata e modalità di svolgimento, in linea con l’art. 6 della tanto evocata Convenzione europea dei diritti e delle libertà fondamentali (CEDU).
Non si è potuto – né allora né dopo – intervenire sulla regolazione della obbligatorietà dell’azione penale, sulla distinzione delle carriere e sul CSM perché ogni misura – di qualunque tipo – sarebbe stata valutata alla luce della presenza in politica di Silvio Berlusconi.
Oggi che questa “presunzione di inopportunità” della riforma è caduta per ragioni di forza maggiore, assistiamo non a caso ad una pioggia di consensi che ad essa giungono anche da sinistra, sia per coerenza personale (quella misura del 1999 fu adottata durante i governi di centrosinistra) che politico-programmatica.
Ciò significa che avremo probabilmente un referendum costituzionale dove i favorevoli non coincideranno con i soli elettori dei partiti che hanno approvato il testo in Parlamento, ma che si andrà ben oltre.
Sarà un voto libero e sereno, insomma, che ci regalerà – verrebbe da dire – anche un elettore finalmente più terzo e imparziale, in una democrazia meno isterica e faziosa di quella in cui ci hanno cresciuti per decenni nella logica perversa e sterile della lotta “amico-nemico”.
Insomma, si tratta di una riforma “nella Costituzione” (per usare l’espressione che in altro contesto impiegava Gianni Ferrara) nonostante qualcuno, anche in questo caso (l’ennesimo…) parli di tentativo di eversione dell’ordine costituzionale, di pieni poteri e altre fumose iperboli buone solo a coprire un costante e infruttifero diniego delle novità che con fatica la politica apporta alle regole comuni.
















