La Gen Z si informa sempre più tramite influencer: per gli under 30 la fiducia nei social ha ormai eguagliato quella nei media tradizionali, segnando la fine dell’autorità giornalistica come filtro centrale della verità. La percezione di “autenticità” batte l’accuratezza, aprendo la strada a un’informazione emotiva, non verificata e facilmente manipolabile. Secondo l’analisi di Lorenza Pigozzi, questo squilibrio rappresenta una vulnerabilità strategica per le democrazie e un nuovo fronte di rischio per la sicurezza cognitiva
C’è un dato, nascosto tra le pieghe dell’ultimo rapporto del Pew Research Center, che dovrebbe far suonare un allarme rosso in ogni cancelleria occidentale. Non riguarda l’economia, né la demografia classica, ma riguarda l’epistemologia della fiducia, ovvero il modo in cui le future classi dirigenti decidono cosa è vero e cosa non lo è.
Per la prima volta nella storia recente, la fiducia che i giovani adulti (under 30) ripongono nelle informazioni trovate sui social media ha statisticamente pareggiato quella verso le testate giornalistiche nazionali: 50% contro 51%.
Non esiste più alcun dislivello di autorità: per un ventenne di oggi, il feed di TikTok ha la stessa dignità epistemica di una redazione con cent’anni di storia.
Questo pareggio non è solo una sconfitta per il giornalismo tradizionale; è il sintomo di una frattura profonda nel sistema immunitario delle nostre democrazie.
La fine della mediazione
Il rapporto Pew fotografa un esodo di massa verso l’informazione disintermediata. Il 37% degli adulti sotto i 30 anni dichiara di informarsi regolarmente tramite “News Influencers”. Fin qui, si potrebbe parlare di semplice evoluzione tecnologica.
Il problema emerge quando si analizza chi sono questi nuovi oracoli dell’informazione.
Lo studio rivela che il 77% di questi influencer non ha mai avuto alcuna affiliazione con una testata giornalistica; sono, nella stragrande maggioranza dei casi, battitori liberi che non rispondono a un direttore, non hanno codici deontologici, non hanno processi di verifica dei fatti strutturati. La loro valuta non è l’accuratezza, ma la connessione.
Autenticità contro Verità
Perché i giovani li scelgono? I dati sono impietosi per i media tradizionali. Gli under 30 preferiscono gli influencer perché li percepiscono come più “autentici” (49%) e capaci di “spiegare meglio” la realtà.
Siamo di fronte a un cambio di paradigma pericoloso: la verità fattuale (oggettiva, verificabile, spesso complessa e “fredda”) sta perdendo la battaglia contro la verità percepita (soggettiva, emotiva, “calda”).
L’autenticità, iil “metterci la faccia”, il linguaggio informale, la vicinanza emotiva, sono diventati il nuovo metro di giudizio della credibilità.
In questo ecosistema, una notizia non deve essere necessariamente vera per essere creduta; deve “risuonare”. Deve sembrare vera. E questo ci espone a rischi incalcolabili.
Il terreno ideale per la Guerra Cognitiva
Se, come sostengo da tempo, la sicurezza nazionale oggi si gioca sulla supremazia narrativa, allora abbiamo appena consegnato le chiavi della nostra difesa cognitiva a una platea di attori non regolamentati.
Sam Altman ci ha avvertito che la democratizzazione dell’AI porta con sé la democratizzazione degli strumenti di attacco: immaginate ora di innestare la potenza della manipolazione artificiale in questo scenario.
Un attore ostile non ha più bisogno di corrompere un giornalista o infiltrarsi in una redazione; gli basta costruire (o cooptare) una rete di “influencer autentici” per iniettare narrazioni destabilizzanti direttamente nella dieta informativa di milioni di giovani.
Il 70% dei giovani dichiara di imbattersi nelle notizie “per caso”, senza cercarle attivamente. Questo significa che la loro visione del mondo è interamente dipendente dalla raccomandazione algoritmica.
Non sono loro a scegliere le notizie; sono le notizie (o chi controlla l’algoritmo) a scegliere loro.
Oltre il divieto: una strategia di resilienza
Di fronte a questi numeri, il dibattito su divieti e ban (come il caso australiano degli scorsi giorni) appare come una risposta analogica a un problema digitale: vietare l’accesso alla piattaforma non restituisce la fiducia nelle istituzioni.
Se togliamo TikTok, la domanda di “autenticità” si sposterà altrove, probabilmente su canali ancora meno visibili e controllabili (come le chat criptate).
La sfida per la Difesa, per le istituzioni e per i media di qualità non è erigere muri, ma scendere nell’arena. Dobbiamo smettere di comunicare ex cathedra, pensando che l’autorevolezza del marchio basti a garantire l’ascolto. Non basta più.
Dobbiamo imparare a competere sul terreno dell’autenticità senza svendere il rigore della verità, formare una cittadinanza dotata di “resilienza cognitiva”, capace di distinguere tra chi informa e chi intrattiene, tra chi verifica e chi manipola.
I numeri del Pew non sono solo statistiche di consumo mediale. Sono la mappa del nuovo campo di battaglia. E al momento, stiamo perdendo.
















