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Giancarlo Giorgetti, la rivincita della prudenza e del rigore. Formica dell’anno 2025

Di Roberto Arditti

Formiche ha assegnato a Giancarlo Giorgetti il riconoscimento “Formica dell’anno 2025”. Una politica che non promette miracoli, ma costruisce la stabilità. Da ministro dell’Economia, Giorgetti ha fatto sua una massima antica: senza credibilità, nessuna politica economica è possibile. E oggi, per la prima volta dopo molto tempo, i numeri stanno dalla parte dell’Italia. Il ritratto di Roberto Arditti

Quando, tra aprile e novembre 2025, tre grandi agenzie di rating hanno rivisto al rialzo il giudizio sull’Italia, molti osservatori internazionali hanno parlato di “svolta strutturale”. Non era mai accaduto, negli ultimi vent’anni, che nel giro di pochi mesi S&P, Fitch e soprattutto Moody’s offrissero un giudizio convergente: l’Italia è un Paese più solido, più affidabile e più capace di governare i propri numeri. S&P ha portato il rating a Bbb+, Fitch ha consolidato l’outlook stabile e Moody’s – con un gesto che mancava dal 2002 – ha promosso l’Italia da Baa3 a Baa2, citando “stabilità politica”, “qualità delle politiche fiscali” e “credibilità del consolidamento dei conti”. Si tratta di parole-chiave nel vocabolario del potere economico globale, tutte rivolte al cuore dell’azione del ministro Giancarlo Giorgetti.

Per comprenderne la portata conviene partire dai numeri. Negli ultimi anni gli indicatori fondamentali dell’economia italiana hanno seguito una traiettoria che mostra un progressivo recupero di equilibrio. Il rapporto debito/Pil, dopo il picco del 155% toccato nel 2020, è tornato verso il 135%, sostanzialmente su livelli pre-pandemici. Parallelamente anche lo spread segue un movimento di normalizzazione: dai 230 punti del 2022 si rientra verso l’area 145-150 nel 2025, tornando su livelli compatibili con una percezione di rischio sotto controllo. Una dinamica analoga si riscontra anche per il deficit, sceso dal del -9,5% del 2020 al -3%, dato previsto per il 2025. Questi numeri compongono un quadro che non lascia spazio ai dubbi. L’Italia torna a essere percepita come capace di mantenere una rotta definita, anche in un contesto globale complicatissimo: guerra in Ucraina, crisi energetica, tassi d’interesse elevati, competizione tecnologica e instabilità geopolitica. Il punto decisivo è che la nostra economia cresce poco, ma cresce. Il deficit scende, il debito si stabilizza, lo spread cala e il costo medio del debito resta sotto controllo. Tutto questo accade mentre le pressioni politiche e sociali per aumentare la spesa pubblica non sono mai state così forti.

L’azione del ministro Giorgetti è quasi “contro-ciclica”: mentre una parte del Paese chiede più spesa, più agevolazioni, più interventi immediati, Giorgetti ricorda che ogni punto di deficit in più si paga con tassi più elevati e minore fiducia internazionale. Una linea che a qualcuno può sembrare austera, ma che i mercati hanno premiato con chiarezza. Questa impostazione richiama una tradizione italiana ben precisa: quella dei tecnici che, nei momenti più difficili, hanno rimesso in carreggiata il Paese. Ciampi negli anni Novanta, Monti nel 2011, Draghi nel 2021: tre fasi critiche, tre “salvatori della patria” riconosciuti a livello globale. Non perché il governo Meloni sia un governo tecnico – tutt’altro –, ma perché Giorgetti ha fatto sua una massima semplice e antica: senza credibilità, nessuna politica economica è possibile.

C’è poi il capitolo politico. Giorgetti si muove dentro una coalizione complessa: la Lega di Matteo Salvini spinge per misure espansive e popolari; Forza Italia insiste sul taglio delle tasse; la presidente Meloni mantiene lo sguardo sul quadro internazionale e sulla stabilità. Il ministro dell’Economia deve costruire ogni giorno un equilibrio tra esigenze diverse, a volte divergenti, senza rinunciare alla linea del rigore che i mercati considerano imprescindibile.

Il miglioramento del rating non è un trofeo, ma uno scudo. Significa finanziarsi meglio, risparmiare miliardi sugli interessi e ridurre il rischio di attacchi speculativi. Ogni riduzione di 50 punti base sui rendimenti vale oltre sei miliardi di risparmio annuo: una cifra che non compare nei talk show, ma che decide il futuro del Paese. Questa è la vera sostanza della “rivincita della prudenza e del rigore”: una politica che non promette miracoli, ma costruisce stabilità. Una strategia che ricorda una verità antica: nei momenti complessi, la differenza non la fanno le promesse, ma la solidità dei numeri. E oggi, per la prima volta dopo molto tempo, i numeri stanno dalla parte dell’Italia.

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