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Quando la politica si siede a tavola. La riflessione di Latella

Di Maria Latella

La cucina, la tavola e la condivisione di un pasto restano strumenti antichi, ma potentissimi per costruire relazioni e aprire dialoghi. Un valore che oggi trova nuova conferma anche nel riconoscimento della cucina italiana come patrimonio dell’umanità Unesco, riconosciuta a livello internazionale per il suo ruolo culturale, sociale e identitario. La riflessione della giornalista Maria Latella

Da sempre affrontare temi difficili a tavola consente di distendere gli animi, almeno per la durata del pranzo. Prima o dopo un incontro di lavoro, le questioni politiche e diplomatiche si ripresentano nella loro forma più rigida, ma nella convivialità è più facile trovare uno spazio di ascolto e di maggiore reciproca comprensione. Lo sapevano bene nell’antica Roma, dove nel triclinium, la sala da pranzo con appositi letti, si concludevano affari importanti e si studiavano strategie politiche. Il banchetto regale, quello di un re o di un duca, è sempre stato palcoscenico del potere, oggi la colazione di lavoro è il momento dove la formalità lascia il posto alla curiosità della reciproca conoscenza.

Quanto ai grandi pranzi di Stato, a volte raccontano più di molte dichiarazioni ufficiali. Basti pensare al sontuoso ricevimento offerto da Emmanuel Macron a Versailles in occasione della visita dei reali d’Inghilterra. Il menù preparato dai migliori chef e una tavola splendente di argenti e cristalli è stata una chiara esibizione dello charme e del savoir-faire francese, una diplomazia del gusto. L’arte della conversazione a tavola è sempre stata un tratto distintivo della cultura francese. Le allumeuses, le dame colte e brillanti che animavano i salotti parigini con dialoghi filosofici e politici appartengono alla storia di Francia. Tavola e conversazione che si ritrovano anche nei classici della letteratura francese. In Bel-Ami , Guy de Maupassant racconta il potere che si costruisce o distrugge tra un bicchiere di Chateau margaux e un piatto di pernice.

Per tornare a noi, i pranzi organizzati per i capi di Stato al Quirinale sono sempre legati alla grande tradizione italiana. Molto apprezzata anche quando per il G20 del 2021 il presidente Mattarella ospitò nel Salone delle Feste i leader del mondo: menù di pesce e prodotti della tenuta di Castelporziano. Oltre oceano. Il soft power degli Stati Uniti alimentato a tavola alla Casa Bianca, il presidente John Fitzgerald Kennedy e la first lady Jackie riuscirono nell’operazione “disgelo” persino con Nikita Kruscev. Sedersi a tavola insieme rivela, se non proprio fiducia, almeno un inizio, un “possiamo parlare”. Quanto all’Italia della politica Seconda repubblica, molti accordi si sono conclusi a tavola, dal “patto della crostata” a casa di Gianni Letta (ma la padrona di casa, Maddalena ha sempre smentito che fosse davvero una crostata, pare si trattasse di budino), alla condivisione di scatolette di sardine tra Bossi e D’Alema.

Oggi Giorgia Meloni invita spesso a palazzo Chigi i suoi vice Matteo Salvini e Antonio Tajani, ma resta ignoto il menù delle riunioni che certo non hanno il cibo come piatto forte. Non solo in politica il pranzo di lavoro è metodo diffuso. A Milano si invita a casa per parlare di lavoro, come fa per esempio, Marina Berlusconi. Credo talmente nella conversazione a tavola da aver proposto e realizzato il format del dinner talk. A casa di Maria Latella, con ospiti che cenano davvero. In tanti, da Ferzan Ozpetek a Carlo Calenda, a registrazione conclusa, mi hanno detto di aver dimenticato di essere su un set.

Riflessione pubblicata sul numero 218 della Rivista Formiche dal titolo “Il potere a tavola – Fenomenologia della food diplomacy


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