Nel cuore di Washington, l’architettura del potere americano parla sorprendentemente italiano. Dalla Rotonda del Campidoglio alla Biblioteca del Congresso, l’immaginario che sostiene la politica statunitense nasce da un’eredità culturale condivisa, intrecciata con simboli, miti e forme dell’Occidente. Eppure, mentre riaffiorano pulsioni isolazioniste, quella stessa eredità rischia di essere dimenticata proprio da chi l’ha scelta come proprio linguaggio. In un mondo attraversato da crisi e rivalità globali, smarrire questo legame significherebbe indebolire l’idea stessa di Occidente. La riflessione di Raffaele Volpi
Ci sono tre nomi che in Italia quasi nessuno ricorda: Brumidi, Costaggini e Bonanni. Tre cognomi che scorrono come acqua nel grande fiume della storia, e che pure – paradossalmente – sono tre italiani che fanno da cielo, da sfondo e da cornice quotidiana a una delle macchine politiche più potenti del mondo. Sono i pittori e decoratori che hanno letteralmente scolpito e affrescato il cuore della democrazia americana.
Perché pochi sanno che centinaia di visitatori, ma soprattutto senatori, deputati, altissimi funzionari e capi di Stato, passano ogni giorno sotto la grande cupola della Rotonda del Campidoglio, lo snodo architettonico che separa e unisce insieme l’ala della Camera e quella del Senato. Quel luogo, che è la soglia simbolica del potere legislativo americano, è dominato dall’Apotheosis of Washington, l’affresco monumentale dipinto da Constantino Brumidi, un italiano nato a Roma e formatosi nella tradizione artistica pontificia.
Accanto a lui, a continuare il fregio e l’opera, lavorarono Filippo Costaggini e Pietro Bonanni, anch’essi italiani. Il risultato è un corpo architettonico dove il linguaggio del potere americano si esprime con la grammatica visiva dell’Italia: allegorie classiche, prospettive rinascimentali, iconografie mediterranee, un’idea di bellezza che attraversa l’Atlantico e ancora oggi accompagna il passo di ogni legislatore americano.
E non è tutto. A poche decine di metri, la Biblioteca del Congresso, nel Thomas Jefferson Building, parla la stessa lingua. Il pavimento è in marmo italiano, le colonne pure. Le volte che portano alla grande sala di lettura riflettono la luce su materiali provenienti dalle nostre città. Le sculture che ornano il perimetro celebrano Dante e Michelangelo tra i grandi dell’umanità, come se la capitale degli Stati Uniti avesse voluto racchiudere la propria identità civica in un involucro europeo, anzi mediterraneo.
La politica americana – quella che decide guerre e paci, alleanze, strategie e destini globali – si muove ogni giorno dentro un guscio che ha la forma dell’Occidente classico. Un guscio italiano, nel senso più profondo: fatto di simboli, di proporzione, di mito, di quella bellezza che abbiamo esportato senza mai reclamarne la proprietà.
Questo non è un dettaglio estetico. È un promemoria politico. È la prova materiale che l’Occidente non è un trattato, ma un’eredità condivisa.
Ed è proprio per questo che sarebbe un errore illudersi che una sola nazione – anche la più potente – possa permettersi di vivere senza gli altri. Le economie globali continuano a muoversi a prescindere da chi decide di esserci o meno. Le crisi, le alleanze, le guerre e le tecnologie non attendono la psicologia dei singoli: avanzano, si impongono, cambiano il mondo comunque.
E qui la deriva retorica di una parte del discorso americano – quella che descrive l’Europa come inutile o oppressiva – rivela la sua fragilità. Perché la geopolitica e la difesa non sono esercizi di contabilità: sono sistemi valoriali. Sono ciò che definisce chi siamo.
Se qualcuno negli Stati Uniti smette di credere nella coesione occidentale, se immagina l’America come un’isola autosufficiente che non ha più bisogno dell’Europa, allora il problema non è l’Europa. Il problema è l’idea stessa di Occidente che si sta smarrendo.
Uscire mentalmente dall’alleanza – o svalutare l’Europa in nome di un nazionalismo muscolare – significa negare proprio quella eredità culturale e simbolica che gli Stati Uniti hanno scelto per rappresentarsi fin dal XIX secolo. Significa dire che la cupola affrescata da Brumidi non racconta più nulla. Che Dante e Michelangelo nella Biblioteca del Congresso sono decorazioni, non radici. Che l’Occidente è un fastidio, non un destino.
Eppure la storia ci ricorda che nessuna democrazia è al sicuro da sola. Non lo è l’Europa, ma non lo sono nemmeno gli Stati Uniti: perché quando la Russia sfida, quando la Cina espande, quando l’Iran destabilizza, nessuna delle nostre capitali – né Washington né Bruxelles – può sostenere da sola il peso della storia.
Oggi l’Ucraina combatte una guerra che riguarda tutti. E in questo scenario, la retorica del disimpegno o dell’irrilevanza europea non solo è miope: è rischiosa. Perché se cede il fronte dei valori – la libertà, il diritto internazionale, l’autodeterminazione – non cede un continente, cede l’Occidente.
In fondo, la domanda non è se l’Europa serva ancora agli Stati Uniti. La domanda è se gli Stati Uniti credono ancora in ciò che li ha fondati: nella libertà condivisa, nell’alleanza tra democrazie, in quella cultura occidentale che loro stessi hanno scelto come forma e linguaggio della propria identità.
Perché basta alzare gli occhi nella Rotonda del Campidoglio per capire che la risposta è già scritta da un italiano, in alto, nel cielo affrescato sopra i legislatori americani.
Se quel cielo non parla più, allora non è l’Europa ad aver perso significato. È l’Occidente che smette di riconoscersi.
Ed è proprio questo che non possiamo permetterci.
















