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Spesa farmaceutica, zavorre e rischi di nuovi oneri sulle aziende del settore

Di Stefano da Empoli e Thomas Osborn

L’annuncio di nuovi strumenti di controllo della spesa che graverebbero direttamente sulle imprese e si andrebbero a sommare ai diversi già esistenti appare estremamente rischioso. Il nostro Paese si contraddistingue non solo per prezzi dei medicinali bassi ma anche per meccanismi fiscali che scoraggiano investimenti e innovazione. L’intervento di Stefano da Empoli, presidente Istituto per la Competitività, e Thomas Osborn, direttore area salute Istituto per la Competitività

L’annuncio del presidente Aifa Robert Nisticò, contenuto in una lunga intervista apparsa oggi su La Repubblica, che è allo studio un meccanismo che taglierebbe automaticamente i prezzi dei farmaci all’aumentare dei profitti delle aziende produttrici riapre il tema della sostenibilità complessiva del sistema di cure in Italia, con conseguenze però imprevedibili per chi opera nel settore.

Difatti, se da una parte continuano ad aumentare la spesa farmaceutica e l’apprensione sulla reale accessibilità universalistica delle cure, dall’altra il nostro Paese si contraddistingue non solo per prezzi dei medicinali bassi ma anche per meccanismi fiscali che scoraggiano investimenti e innovazione.

Affrontare questi paradossi, comprendendone tuttavia i nodi alla radice, è – come dice giustamente lo stesso Nisticò – tema non più rimandabile se si intende offrire risposte a una popolazione nel mezzo di una transizione demografica e sanitaria e a un settore, che vale oltre il 2% del Pil italiano, già alle prese con zavorre non da poco come payback e peso della burocrazia.

Gli ultimi dati del ministero della Salute confermano una tendenza oramai stabile che vede l’aumento della spesa farmaceutica per il nostro Paese. Nel 2024, infatti, la spesa totale è cresciuta nuovamente di quasi 3 punti, raggiungendo la soglia dei €37,2 miliardi. Di questa cifra, €26,8 miliardi sono riconducibili alla spesa farmaceutica pubblica, che registra un aumento del +7,7% annuo dovuto, principalmente, alla spesa per i farmaci acquistati dalle strutture ospedaliere: questa voce continua a registrare la crescita più elevata, con un aumento del +197% nel periodo 2008-2024 (+6% nell’ultimo anno), mentre la spesa territoriale pubblica è decisamente più stabile. Come in altri sistemi sanitari simili, la spesa sanitaria privata è invece ben più contenuta (€10,2 miliardi) e, sebbene aumentata del 52% rispetto al 2008, nell’ultimo anno presenta una lieve contrazione del 5%.

Legata a questi aumenti è anche una seconda tendenza, anch’essa ormai rilevata ogni anno, che vede lo sforamento dei tetti di spesa e l’avvio del dibattito circa il loro innalzamento. Secondo i dati 2024, tutte le regioni risultano infatti al di sopra del limite sulla spesa farmaceutica ospedaliera (con ben 16 le regioni che superano per un importo pari o superiore a tre punti il tetto di spesa) con uno scostamento complessivo pari a €4 miliardi (+22% rispetto al 2023), mentre per gli acquisti convenzionati sono state 8 le regioni al di sopra del tetto. Per far fronte a questo scenario, le bozze della nuova legge di Bilancio prevedono nuove revisioni dei limiti a partire dal 2026, innalzandoli al 15,55%, con un aumento di 0,25 punti rispetto al 2025 (certamente insufficiente ad arginare anche solo parzialmente lo sforamento).

Se è vero che la spesa farmaceutica continua ad aumentare, è altrettanto importante comprenderne meglio le cause. Infatti, più che il prezzo dei farmaci, che – come evidenziato dallo stesso Nisticò nell’intervista di stamattina – “sono i più bassi d’Europa”, a incidere sembrano essere altri fattori.

In primo luogo, come afferma il presidente Aifa, “succede, intanto, perché la nostra popolazione invecchia e questo rende il nostro Paese tra i maggiori consumatori di farmaci”. Ciò è indubbiamente vero e determinante, dato che il nostro Paese è già oggi alle prese con una popolazione composta per oltre un quarto da over sessantacinquenni che nella maggior parte dei casi hanno due o più cronicità.

Tuttavia, come detto, il tema non è certo il prezzo dei farmaci, quanto ad esempio il loro uso spesso inappropriato: come riportato da Aifa, un anziano su tre assume 10 o più farmaci ogni giorno, con le conseguenze di queste politerapie che, in alcuni casi aumentano ulteriormente rischi e svantaggi per i pazienti a causa di interazioni contrastanti e reazioni avverse. Ciò è dovuto a uno scarso monitoraggio delle proprie condizioni, a livelli insufficienti di aderenza terapeutica, e ad abitudini di acquisto e di cura ancora culturalmente fortemente impostati sul ricorso al medico di medicina generale o, ancora più spesso, direttamente in farmacia.

In secondo luogo, grava sulle condizioni di salute degli italiani, ma anche sulle politiche di salute pubblica, l’ancora insufficiente attenzione alla prevenzione. Come evidenziato da Nisticò nell’intervista, la mancata centralità di politiche preventive e di promozione di stili di vita sani deve essere percepita come una sfida collettiva. Se, infatti, i cittadini devono indubbiamente fare la propria parte, ad esempio aderendo alle campagne vaccinali e agli screening, una risposta è attesa anche dallo Stato: ad oggi, l’Italia destina alla prevenzione solo poco più del 5% del FSN, una quota inferiore rispetto a molti altri Paesi europei, sebbene sia calcolato che ogni euro investito in prevenzione primaria possa generare tra €2 e €16 di risparmio in termini di costi sanitari evitati, produttività preservata e riduzione dell’onere sociale delle malattie croniche.

Le cause alla base dell’innalzamento della spesa sembrano pertanto maggiormente legate all’impostazione strutturale del nostro assetto di cure, nonché in parte riconducibili ad anni di politiche di sanità pubblica che non sono state in grado di limitare l’ospedalizzazione e accompagnare un ribaltamento di paradigma a favore di un modello basato su prevenzione e misurazione dei bisogni.

Anche volendo leggere il dato della spesa in chiave etica – come sempre va fatto quando si parla di salute e di Ssn – questa non risulta oggi essere una delle barriere che determinano l’accessibilità delle cure per gli italiani: se, infatti, come rilevato anche recentemente, oramai circa un italiano su dieci rinuncia alle cure, questo è prevalentemente a causa di liste di attesa troppo lunghe, a mancanza di informazioni, e al costo delle terapie nel loro complesso, e non tanto al prezzo del singolo farmaco. In altre parole, si assiste al paradosso per cui gli italiani rinunciano alle cure, ma non all’acquisto del farmaco.

A maggior ragione, dunque, occorrerebbe certamente ripensare l’introduzione della nuova “clausola di salvaguardia” proposta stamattina dal presidente Nisticò e che potrebbe essere introdotta già nelle prossime settimane. Da quel che si apprende, questa “imporrà la rinegoziazione automatica dei prezzi dei farmaci per abbassarli attraverso sconti che scattano appunto sulla base dei guadagni che le aziende hanno su un determinato prodotto”, identificando – ancora una volta – nel solo costo del farmaco la priorità da affrontare e omettendo questioni (che più che una “clausola” richiederebbero interventi strutturali) legate alle nuove tendenze demografiche e alla mancata centralità della prevenzione.

Infine, non si può non evidenziare come tale intervento, dal dubbio effetto in termini di “accessibilità” delle cure, ricadrebbe esclusivamente sulle spalle dell’industria Life Science italiana sulla quale, come noto, già gravano alcune annose questioni che ne limitano l’attrazione di investimenti e la competitività nel quadro internazionale. Parliamo innanzitutto del payback, una vera e propria tassa occulta che grava sulle aziende e che quest’anno è stimato pari a circa €2 miliardi, ma anche delle aliquote fiscali, della frammentazione regionale e dell’incertezza burocratica (bene la proposta del nuovo Testo Unico), e delle lunghe tempistiche legate all’accesso dei farmaci sul mercato, al rilascio di certificazioni e all’assegnazione di finanziamenti.

A fronte di un settore che anno dopo anno dimostra il suo importante potenziale: la produzione del comparto farmaceutico è più che raddoppiata negli ultimi 10 anni e vale €54 miliardi, circa il 2% del Pil, contribuendo in modo fondamentale all’economia nazionale in termini occupazionali e di export (che ha raggiunto lo scorso anno la cifra record di €49 miliardi, +150% tra il 2013 e il 2023). A proposito di export, a tale contesto già di per sé articolato e ricco di ostacoli burocratici e normativi, si è recentemente aggiunta la preoccupazione anche per le nuove tensioni commerciali con gli Usa. Questi sono infatti tra i principali partner del comparto italiano, e si stima che i nuovi dazi possano gravare sull’export farmaceutico, nelle ipotesi più ottimistiche, per circa €2,5 miliardi (addirittura fino a €4 miliardi secondo Farmindustria).

Insomma, in questa temperie carica di incertezze, solo in parte nel nostro controllo e di nodi irrisolti che rischiano già da soli di interrompere la crescita del settore, l’annuncio di nuovi strumenti di controllo della spesa che graverebbero direttamente sulle imprese e si andrebbero a sommare ai diversi già esistenti appare estremamente rischioso. Laddove sarebbe invece consigliabile porre finalmente mano a una revisione complessiva della governance farmaceutica, in un quadro d’insieme che tenga conto di tutti i fattori. Nessuno escluso e a beneficio dell’intera collettività.

 

 


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