Il Myanmar avvia le prime elezioni dal colpo di Stato del 2021 in un contesto segnato da guerra civile, repressione e forte riduzione del pluralismo politico. Il voto, articolato in più fasi, si svolge senza le principali forze di opposizione e con un controllo militare diffuso, sollevando interrogativi sulla sua capacità di rappresentare una reale transizione democratica
Le urne si sono chiuse da poco in Myanmar per la prima fase delle prime elezioni generali dal colpo di Stato militare del 2021, in un voto che ha avuto luogo in un clima segnato dalla guerra civile, dalla repressione politica e da accuse diffuse di illegittimità. La consultazione, presentata dalla giunta come un ritorno alla democrazia elettorale, appare invece a molti osservatori come un passaggio formale destinato a consolidare il potere dei militari.
Le operazioni di voto sono iniziate alle sei del mattino di domenica e, almeno nei seggi di Yangon, sono procedute lentamente. Le elezioni si articolano in tre fasi: la prima riguarda 102 delle 330 municipalità del Paese, mentre le successive sono previste per l’11 e il 25 gennaio. I risultati finali dovrebbero essere annunciati entro febbraio, una volta completato l’intero ciclo elettorale.
Il contesto resta estremamente fragile. Il Myanmar è attraversato da un conflitto armato che coinvolge vaste aree del territorio e che ha seguito la repressione violenta delle proteste contro il golpe del febbraio 2021. In questo quadro, è ampiamente atteso che il generale Min Aung Hlaing, al potere dal colpo di Stato, assuma la presidenza al termine del processo elettorale.
Formalmente, oltre 4.800 candidati appartenenti a 57 partiti concorrono per i seggi nei parlamenti nazionali e regionali. Tuttavia, solo sei partiti sono presenti su scala nazionale con reali possibilità di incidere sugli equilibri parlamentari. Tra questi spicca l’Union Solidarity and Development Party, formazione ben organizzata e finanziata, sostenuta apertamente dai militari e considerata di gran lunga la principale favorita.
Le critiche al voto sono severe. L’esclusione dei partiti di opposizione più popolari, le restrizioni alla libertà di espressione e un clima di intimidazione diffusa hanno portato numerosi osservatori a definire le elezioni una “messa in scena” per dare una parvenza di legittimità al regime. La National League for Democracy, vincitrice delle elezioni del 2020, non partecipa al voto essendo stata sciolta nel 2023 dopo aver rifiutato di registrarsi secondo le nuove regole imposte dai militari, mentre la sua storica leader, Aung San Suu Kyi sta scontando una condanna a 27 anni di carcere sulla base di accuse considerate da molti osservatori come politicamente motivate. Anche altri partiti hanno scelto di non partecipare o di boicottare le elezioni, giudicate prive di reali condizioni di equità.
Secondo analisti regionali, la mancanza di una scelta autentica per gli elettori è uno degli elementi più critici: oltre il 70% degli elettori nel 2020 aveva votato per partiti che oggi non esistono più. A questo si aggiungono le segnalazioni di pressioni dirette esercitate dall’esercito e dalle autorità locali per spingere la popolazione a recarsi alle urne, inclusa la presenza di soldati armati nei villaggi alla vigilia del voto.
Il conflitto e la repressione continuano a incidere profondamente sulla società. Migliaia di leader politici e attivisti restano detenuti, mentre la guerra civile ha prodotto milioni di sfollati interni e un bilancio di vittime civili in costante aumento. Una nuova legge sulla “protezione delle elezioni” limita ulteriormente ogni forma di critica pubblica al processo elettorale, rafforzando il controllo della giunta.
Sul piano internazionale, il voto difficilmente basterà a riabilitare il Myanmar agli occhi dell’Occidente, che mantiene sanzioni contro i vertici militari. Tuttavia, la sola celebrazione delle elezioni potrebbe offrire a Paesi vicini come Cina, India e Thailandia un argomento per continuare a sostenere il regime in nome della stabilità regionale.
















