La cucina italiana è diventata ufficialmente patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Il cuoco Filippo Lamantia celebra sulla rivista Formiche la ricchezza delle materie prime e il peso della tradizione del Belpaese, ma soprattutto quell’idea di ospitalità calorosa e condivisa che da sempre accompagna la tavola italiana. Un patrimonio fatto non solo di saper fare, ma di valori, relazioni e identità nazionale
Il cibo è uno dei mezzi di comunicazione più potenti. La diplomazia intorno a una tavola si è sempre celebrata. Ha sempre permesso che tensioni, estraneità, difficoltà e incomprensioni venissero mitigate intorno a una buona pietanza e alla convivialità che un pranzo o una cena esprimono. Il cibo ci permette di ritornare bambini. Un viaggio che, a dispetto delle corazze che portiamo, è sempre piacevole e dove ogni piatto stimola ricordi positivi, a prescindere dalla situazione.
Io stesso ho apparecchiato, per tantissimi anni, tavole istituzionali dove la tensione era altissima, soprattutto per i temi che venivano trattati. La responsabilità, vista dalla mia parte, era alta e l’ansia da prestazione non deve mai prendere il sopravvento. Ognuno dei commensali, a prescindere dal loro ruolo, ha esigenze differenti e l’organizzatore del tavolo deve essere sicuro che tutto vada per il meglio e che tutto ciò non possa ledere gli equilibri delicati che dovrebbero essere mantenuti. Questo fa parte della diplomazia del cibo, mettere d’accordo tutti e far sì che le proposte siano più equilibrate possibili, anche a livello di calorie. La politica estera, da tempo, ha adottato dei sistemi comunicativi straordinari. La testimonianza migliore è quella della settimana della cucina italiana nel mondo.
Ogni anno gli chef si recano nelle ambasciate del mondo a parlare, cucinare, raccontare le nostre tradizioni legate alla cucina. Da venti anni sono sempre in giro e l’attenzione intorno al Paese Italia è enorme. Questo tipo di eventi serve tantissimo a incrementare il commercio e a distendere i rapporti tra le varie ambasciate, come un biglietto da visita da consegnare a tutti. Roma, dove ho lavorato per 15 anni, mi ha dato la possibilità di incontrare numerose personalità che, attraverso l’arte dell’accoglienza, della convivialità e del cibo, si affidavano a me per portare a termine progetti e discussioni. Consumare un buon pasto può essere di aiuto per concludere una trattativa complessa e, alla fine del lavoro, è molto bello captare positività e riconoscimento.
L’Italia gioca un ruolo importantissimo nel mondo. Le nostre tradizioni, le donne e gli uomini che ogni giorno si impegnano per portare avanti la nostra agricoltura, il nostro pescato e il nostro territorio sono ambasciatori inconsapevoli di uno Stato che è stato fondato sulla famiglia e sull’accoglienza. L’ospitalità italiana è un brand, uno stile di vita e il nostro governo, a prescindere dai colori politici, ha sempre sostenuto e mostrato al mondo intero la positività e l’impegno dei nostri prodotti. Quindi, ogni volta una tavola viene imbandita per un evento istituzionale, i commensali provenienti da tutte le parti del mondo sanno benissimo che approcceranno a una tipologia di cibo differente. Stagionalità, profumi, leggerezza, fantasia, tradizione e tanta sapienza, che noi cuochi dobbiamo adottare per permettere che il nostro e il loro messaggio arrivi dritto al cuore.
Qualunque sia il messaggio o la discussione da affrontare, c’è sempre quel momento di sospensione positiva, in cui tutto si annulla e a lavorare sono solamente le papille gustative che alimentano il cervello e stimolano i ricordi. Mi sono ritrovato, spesso e volentieri, a fare da cantastorie nelle cene organizzate nelle varie ambasciate del mondo. È una prerogativa del progetto che la diplomazia adotta nel raccontarsi e rappresenta un momento di orgoglio nel mostrare a tutti da dove proveniamo. In fondo i messaggi più umili sono quelli più forti. Le nostre origini appartengono alla povertà e i migliori piatti che oggi realizziamo sono storia allo stato puro. Molti di essi sono nati per sfamare intere famiglie, attraverso la dedizione di donne straordinarie che con il loro amore riuscivano a cucinare con pochissimi ingredienti. La cucina del sud Italia ne è testimone.
Tante volte mi sono accorto che il nostro cibo è paragonabile a una lingua universale. Quando tante personalità si attovagliano intorno a una tavola, la lingua con cui si comunica è solamente quella del buon cibo. Io studio tantissimo le espressioni dei commensali da dietro le quinte. Ovviamente non posso pretendere che a un evento, con un menù fisso scelto dalle ambasciate, il piatto possa piacere a tutti. Per questo, prima del pranzo o della cena, mi accerto in maniera meticolosa se i commensali hanno esigenze particolari. La personalizzazione del piatto accresce la stima e crea benessere. Il cibo appartiene a tutti e il cuoco deve soddisfare, senza reticenze, le esigenze dei commensali, soprattutto in situazioni dove la visibilità e la credibilità degli organizzatori deve essere massima. Non dimentichiamo mai che il cibo entra dentro di noi e, quindi, deve stimolare per tante ore un buon ricordo, soprattutto, quando ci sono lavori in corso e decisioni importanti da prendere.
La solidarietà passa, anche, attraverso il cibo. Io stesso sono protagonista di centinaia di eventi legati alla raccolta fondi per aiutare popoli in difficoltà. Molte volte mi sono ritrovato a cucinare, un anno fa ad Amman, con i profughi iracheni. Da circa venti anni mi occupo di detenuti che provengono da ogni parte del mondo. Cosa hanno in comune questi eventi? Le razze. Ognuno di essi e da qualsiasi Paese provengano, hanno mangiato il cibo delle loro mamme e delle loro tradizioni. Per questo scelgo sempre di cucinare loro i piatti dell’infanzia e tutto questo crea felicità nei loro occhi. Un progetto di cui sono orgoglioso da circa un anno, è Food for Gaza. Stiamo lavorando tanto perché il cibo debba essere assolutamente di tutti e che non rappresenti un’arma di guerra. In tanti lo hanno capito e la guerra da sconfiggere è quella del cibo. Lavoro da tanti anni per evitare che il cibo venga sprecato e noi ne gettiamo tantissimo. Le diplomazie, i governi e noi tutti dovremmo combattere questa calamità. La consapevolezza del cibo deve essere massima e non possiamo permettere che ci siano tante diversificazioni legate alla nutrizione, soprattutto per i bambini che muoiono di fame. Tanti sono i tavoli di lavoro a cui ho partecipato in questi anni e tante sono state le dimostrazioni, da parte mia, di come fare a cucinare e a sfamare con quelli che vengono definiti “scarti”. È molto semplice, ci vuole solo tanta volontà e tanto altruismo. La diplomazia del cibo deve passare attraverso il plurale, e non il singolare. Non possiamo più pensare di dire: io. Bisogna dire: noi. Solo così potremo portare a termine qualcosa di buono e di giusto.
Le esperienze istituzionali che ho vissuto mi hanno insegnato a guardare oltre e a capire cosa sia meglio fare. La visibilità ottenuta, attraverso l’impegno e il lavoro, deve servire da chiave di lettura per capire chi sta peggio di noi. Quella, per me, è la vera diplomazia del cibo. Se il cibo è riuscito a diventare arma e ricatto, può anche tornare a essere un mezzo di pace e di equilibrio, basta volerlo. Il cibo è identità e può rappresentare una nazione al meglio. Sono stato uno dei promotori, 29 anni fa, del Cous cous fest a San Vito Lo Capo. Uno dei primi eventi che l’organizzazione volle è stato il pranzo tra un cuoco palestinese e uno israeliano attraverso un elemento che caratterizza la tradizione allo stato puro che è la semola del cous cous. Piatto potentissimo, le donne del Maghreb pregano mentre incocciano la semola. La Bibbia narra di un piccione da cui esce semola di cous cous dal ventre in segno di fertilità. Oltre che mezzo di scambio tra i pescatori siciliani e quelli tunisini più di un secolo addietro. Anni fa, Gino Strada mi portò in Sudan e precisamente nel campo profughi. Li feci rinvenire la semola del cous cous con l’acqua piovana, dato che non avevano nulla, e ho permesso loro di mangiare un carboidrato. Quindi il cibo come mezzo per andare dovunque, un po’ come un tappeto volante. Questi si possono definire rapporti internazionali.

Riflessione pubblicata sul numero 218 della Rivista Formiche dal titolo “Il potere a tavola – Fenomenologia della food diplomacy”















