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Ecco chi paga i dazi voluti dal Trump

Una bella analisi pubblicata dagli economisti della Fed di S.Louis mostra quanto sia fallace l’idea che daziare l’import faccia male solo a chi esporta i beni che finiscono all’indice. Questa convinzione, che affonda le sue radici nel più vieto mercantilismo, trascura di osservare quanto sia complessa e articolata la catena della produzione oggi rispetto a tre secoli fa, quando la teoria mercantilista furoreggiava fra i nascenti stati nazionali. E nel caso degli Usa, poi, non tiene minimamente conto né dell’alto livello di internazionalizzazione delle imprese americane né della circostanza che anche le produzioni interne si basano notevolmente sull’importazione di beni esteri, che servono per completare il ciclo di produzione.

Come dato di partenza si prende l’insieme dei dazi annunciato lo scorso 15 giugno dall’amministrazione Trump sui beni importati dalla Cina per un valore di 50 miliardi (valore 2017). Quindi i beni soggetti a dazio vengono classificati, a seconda dell’utilizzo che se ne fa, come beni di consumo (consumer goods), beni strumentali (capital equipment), beni intermedi (intermediate inputs) e altri. L’impatto dei dazi è stato osservato seguendo questa schematizzazione e ne è uscita questa torta:

Da questo grafico si evince che i beni che occorrono alla produzione, ossia i beni intermedi e quelli strumentali, sono la gran parte di quelli sottoposti a tariffa. Quindi imporre dazi su queste categorie rischia di aumentare i costi di produzione delle imprese che ne fanno uso finendo col diminuirne la competitività. Ossia l’esatto contrario di quel che i dazi si propongono di fare.

Il rischio di un esito siffatto, sicuramente non intenzionale, può essere valutato osservando il livello di beni intermedi di cui abbisogna l’industria manifatturiera Usa e in che misura questi vengono importati. L’analisi svolta dall’autore mostra che “i beni intermedi giocano in media un ruolo chiave nella manifattura Usa”. Le industrie, infatti, “usano i beni intermedi molto intensivamente, con una valore che arriva in media al 64% della produzione”. Una quota notevole di questi beni intermedi viene importata. L’autore ha calcolato che vale il 22%. “Questa evidenza suggerisce che aumentare le tariffe sui beni intermedi ha un impatto negativo significativo sulle industrie manifatturiere Usa. Alzare i prezzi sui beni intermedi può spingere i produttori ad alzare i prezzi, colpendo i consumatori, o diminuire la produzione”. Anche perché molte aziende rischiano di dover chiedere i battenti a causa della perdita di competitività.

Se dai valori medi passiamo alle osservazioni settoriali, il quadro si delinea ancora meglio.

Gli istogrammi arancione rappresentano la quota dei beni intermedi sul totale della produzione delle singole industrie, mentre sull’asse orizzontale su osserva la quota di produzione del settore considerato sul totale della produzione manifatturiera Usa. Quelli blu misurano la quota di beni intermedi importati sul totale dei beni intermedi in ogni industria. Si traggono alcune conclusioni. La prima è che “i beni intermedi pesano più del 50% del valore totale della produzione in tutte le industrie con l’eccezione del settore computer, elettronica, ottica e delle macchine industriali. In alcuni settori è ancora più elevato, ad esempio nell’industria dei veicoli a motori, che pesa l’8,2% della produzione manifatturiera Usa, arriva all’84%, e al 75% nell’industria del cibo, bevande e tabacco, che vale il 15% della produzione Usa. Un’altra osservazione interessante è che i settori che dipendono di più dai beni intermedi importati dall’estero sono il settore computer, ottica, elettronica e macchine industriali (il 30%), mentre il settore food&beverage ne abbisogna per il 10%. Pure a questo livello, considerato minimo, l’impatto sulla manifattura Usa rischia di essere significativo. Alla fine di conti il conto dei dazi lo pagano imprese e consumatori. Anche negli Usa.

Twitter: @maitre_a_panZer


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