La mattina del 18 agosto, la prima notizia finanziaria che gli italiani hanno letto è parsa avere il sapore di un paradosso: debito pubblico in calo, ma investitori stranieri in fuga dai nostri titoli di Stato e spread in aumento. L’apparente paradosso è in parte spiegato dalla tragedia del Ponte Morandi a Genova e dalle reazioni di molte parti in causa, non sempre ispirate alla dovuta compostezza nella gravità del momento. C’è, però, una determinante che innervosiva cittadini, operatori ed investitori, e muoveva lo spread al rialzo, prima della tragedia di Genova: il modo caotico, per utilizzare un vocabolo gentile, con cui l’esecutivo sta gestendo il tema delle pensioni.
Un tema caldissimo in un Paese con 18 milioni di pensionati, di cui 14 milioni con trattamenti ‘previdenziali’ (ossia collegati, in un modo o nell’altro, a lavoro effettuato e a contributi versati) e 4 milioni con trattamenti puramente assistenziali, come le ‘pensioni sociali’ introdotte negli anni Settanta del secolo scorso e che, in base alla riforma del 1995, dovrebbero più appropriatamente essere chiamate ‘assegni sociali’ a carico quindi della fiscalità generale anche se, per comodità, erogate tramite l’INPS.
Ricapitoliamo schematicamente i passaggi principali. Durante la campagna elettorale, la Lega ed il M5S avevano, in materia previdenziale, priorità differenti che rispecchiavano abbastanza fedelmente i ‘blocchi sociali’ di riferimento. Per la Lega la priorità era di cancellare o modificare drasticamente la così detta legge Fornero che collega l’età legale di pensionamento con l’aspettativa alla nascita (per prevedendo sistemi speciali per coloro che hanno cominciato a lavorare molto giovani – ‘precoci’- e coloro in attività ‘usuranti’ e contemplando forme di uscita prima dell’età di pensionamento). Per il M5S la priorità era una grande operazione redistributiva: prelevare dalle pensioni considerate elevate (quali che fossero i contributi versati) per portare a 780 euro al mese le ‘pensioni’ o ‘assegni sociali’.
Il “contratto di governo” prevede un compromesso: rimodulazioni della legge Fornero e delle pensioni che superano i 5000 euro l’anno. Per la rimodulazione della legge Fornero c’è anche una specifica: si andrebbe in quiescenza, a partire dai 64 anni età, se tra anni lavorati ed età anagrafica si giunge a quota cento. Ci si accorge ben presto che i costi all’erario sarebbero tra i 14 ed i 20 miliardi di euro l’anno (stime, a mio avviso, eccessive perché il mercato del lavoro sta cambiando rapidamente e numerosi anziani desiderano restare in impiego). Sono tuttavia cifre che inducono ad una pausa di riflessione almeno sino alla preparazione della legge di bilancio.
Per quanto riguarda le ‘pensioni d’oro’, il vice presidente del Consiglio e ministro del Lavoro Luigi Di Maio vuole azione, quanto meno per ottenere parte delle luci della ribalta accese sul suo collega Salvini (dai riflettori sull’immigrazione). Ma prima di cadere in un’altra gaffe simile a quella della relazione tecnica sul Decreto Dignità, qualcuno del suo staff gli fa notare che i percettori di pensioni complessive (ossia cumulando al proprio trattamento INPS quello di reversibilità, di invalidità, di danni a causa di terrorismo) si arriva a 30.000 persone, di cui meno di 10.000 titolari di pensioni ‘proprie’ di 5.000 euro. Una manciata del tutto insufficiente per l’agognata operazione di redistribuzione. Allora, senza consultare l’alleato, sposta l’asticella da 5.000 ai 4,000 euro, irritando non poco la Lega. Ciò a 100.000 i soggetti da cui pescare, tagliando i loro trattamenti previdenziali.
Ai capigruppo alla Camera di Lega Molinari e M5S D’Uva viene chiesto di predisporre al più presto una proposta di legge che sarebbe dovuta diventare un collegato alla legge di bilancio. I due malcapitati ci provano. Ma, secondo un proverbio romano, la gatta frettolosa fa i figli ciechi. Pensando di fare i furbetti ripescano un articolato intitolato “Non per Cassa ma per Equità” proposto alcuni anni fa dall’attuale presidente dell’INPS, Tito Boeri, e da nessuno, proprio nessuno, preso in considerazione. Molinari e D’Uva non si sono chiesti perché il testo fosse stato snobbato.
Come ha scritto efficacemente Giuliano Cazzola, “la partita si gioca con due carte: in una è indicato il coefficiente di trasformazione (ovvero il moltiplicatore del montante contributivo riferito all’età in cui si è andati in quiescenza in rapporto all’attesa di vita) corrispondente agli anni che il lavoratore aveva in quel momento magico, in cui ha potuto esaudire la sua aspirazione; nell’altra il coefficiente previsto in quello stesso periodo per l’età richiesta come requisito per il trattamento di vecchiaia. I coefficienti sono quelli previsti dalla legge Dini del 1995, con i relativi aggiornamenti. Tanto per capirci: se il rapporto tra i due coefficienti (e quindi tra le due età anagrafiche) è uguale a uno (perché il soggetto interessato è andato in quiescenza all’età prevista per la vecchiaia) la sua pensione resta intatta. Se invece si traduce in un decimale più basso (0,70 per esempio), esso diventa la misura del nuovo importo dell’assegno”. La proposta ha una ‘logica perversa’: “è plausibile che nel 2019 entrino in vigore anche i correttivi della legge Fornero tesi ad agevolare il pensionamento anticipato ma i percettori di un reddito elevato, candidati ad avere una discreta pensione, potranno evitare il taglio soltanto rinunciando all’anticipo ed aspettando l’età di vecchiaia. E non trovano pace neppure i trattamenti (pari o superiori all’importo canonico degli 80mila euro lordi) erogati prima del 1996. Ovvero si andrà a mettere le mani in tasca ad anziani signori ormai ultraottantenni, in nome di discutibili principi di equità”.
Non solo: da opera comica la vicenda si trasforma in farsa quando ci si accorge che con questo complesso meccanismo, si colpirebbero principalmente i militari (specialmente coloro andati nella riserva) e le donne che sino a tempi recenti hanno avuto un’età di pensionamento più bassa di quella degli uomini. Dalle forze armate e associazioni di donne è partito un altolà. Il capo politico del M5S ha parlato di ‘svista’, causata da burocrazia (forse ‘cinica e bara’). Molinari e D’Uva hanno fatto abiura.
Ora si è nel pieno caos. All’OCSE ed all’Organizzazione Internazionale del Lavoro si ride a crepapelle. I fondi pensioni internazionali si tengono lontani dall’Italia. Rispunta il progetto di un ‘contributo triennale di solidarietà’ simile a quello introdotto dal governo Monti e considerato ammissibile dalla Corte Costituzionale unicamente in caso di ‘grave crisi finanziaria’. Riesumarlo vuol dire un’ammissione del governo che siamo alla frutta. Per questo, lo spread sale.