Il governo afgano ci riprova. In un discorso tenuto ieri in occasione della Giornata dell’Indipendenza, il presidente afgano Ashraf Ghani ha proclamato una tregua coi talebani – la seconda quest’anno, dopo quella dichiarata a giugno – in coincidenza con la festa islamica del Sacrificio (Eid al-Adha) che ha inizio oggi e durerà sino a giovedì.
“Annuncio un cessate il fuoco”, ha detto Ghani dal palazzo di Darul-Aman, precisando che la tregua sarà “subordinata” alla reciprocità da parte dei talebani. Secondo le intenzioni del presidente, la cessazione delle ostilità dovrebbe durare “fino al 21 novembre, giorno del compleanno del profeta Maometto” o, in ogni caso, fino a quando “i talebani la manterranno e la rispetteranno”.
Poche ore dopo l’annuncio, Ghani ha ribadito la sua intenzione in una serie di tweet partiti dal suo account ufficiale. “Mentre ci approssimiamo all’Eid al-Adha”, ha cinguettato Ghani, “e per rispettare i desideri di diversi segmenti della società afghana, inclusi i sapienti religiosi, i partiti politici, i leader delle donne e della società civile, i giovani, i membri dell’alto consiglio per la pace (e quelli) dei sapienti religiosi del mondo islamico riuniti nelle moschee sacre (nonché quelli) dell’Organizzazione dei Paesi Islamici (OIC) e dei custodi delle due moschee sacre (ossia i reali) dell’Arabia Saudita (…) annunciamo un cessate il fuoco che avrà effetto a partire da domani, lunedì, il giorno di Arafa, fino al giorno della nascita del profeta (PBUH), cioè il Milad-un-Nabi, a patto che ci sia reciprocità da parte dei talebani. Facciamo appello alla leadership dei talebani affinché accolga il desiderio degli afghani di una lunga, duratura e reale pace, e la esortiamo ad essere pronta a colloqui di pace basati sui valori e sui principi islamici”.
Si attende ora la risposta ufficiale da parte del leader talebano, Sheikh Haibatullah Akhunzada. Il quale tuttavia, in un messaggio augurale per l’Eid diffuso sabato, aveva ribadito la linea del movimento: niente pace fino a che proseguirà la “occupazione straniera”, nessun negoziato con il governo di Kabul ma solo con gli Stati Uniti e perseguimento incessante degli “obiettivi islamici”, vale a dire restaurazione dell’Emirato Islamico, l’entità fondata e presieduta dal defunto Mullah Omar, travolta nel 2001 dall’intervento militare scagliato dagli Usa a poche settimane dagli attentati dell’11 settembre 2001.
La mossa di Ghani ha comunque avuto dei primi riscontri positivi, desumibili da una serie di messaggi che i talebani hanno diffuso a mezzo stampa. Il primo porta la firma del portavoce del gruppo, che ha anticipato l’intenzione del movimento di osservare la tregua per tutta la durata della festa del sacrificio e di liberare centinaia di prigionieri, a condizione che il governo centrale faccia altrettanto con i talebani detenuti.
Un membro della Shura dei talebani ha poi fatto sapere che la proposta di Ghani sarà trasmessa “ai nostri comandanti militari”, i quali saranno chiamati “a cessare tutte le loro operazioni per quattro giorni. Il cessate il fuoco avrà effetto a partire da lunedì e si concluderà giovedì”.
In una breve nota ottenuta dall’emittente americana Nbc, i talebani hanno quindi riaffermato i loro obiettivi: benché “portare la pace e la sicurezza sia tra le più alte priorità dell’Emirato Islamico, la pace rimarrà inafferrabile (finché perdurerà) l’occupazione né la salvezza sarà possibile senza l’istituzione di una autorità islamica”.
Tutto sembra indicare, dunque, che la popolazione afghana potrà festeggiare l’Eid in pace e sicurezza. Ma quanto alla proposta di Ghani di sospendere i combattimenti per ulteriori tre mesi, le speranze sono flebili: i talebani sono all’offensiva ovunque e non vogliono sprecare l’opportunità di sfiancare il traballante governo di Kabul. In merito ai colloqui di pace, non sembrano inoltre esserci margini di trattativa: i talebani si rifiutano di negoziare con quello che considerano un governo “fantoccio” la cui sorte è legata al sostegno politico e militare degli Stati Uniti, la sola forza con cui il movimento è disposto a parlare.
Ma gli Usa, tramite il loro segretario di Stato Mike Pompeo, ribadiscono che i colloqui di pace devono riguardare solo ed esclusivamente gli afghani, e che l’America è disposta tutt’al più a svolgere un ruolo di facilitatrice. Nella dichiarazione diffusa ieri dal Dipartimento di Stato, Pompeo ha salutato “l’annuncio del governo afghano di un cessate il fuoco subordinato alla partecipazione dei talebani”, sottolineando come questo “piano risponda alla chiara e continua richiesta di pace del popolo afghano”. “È l’ora della pace”, ha enfatizzato il capo della diplomazia a stelle e strisce, per il quale, dopo la mossa di Ghani, non ci sarebbero più “ostacoli ai colloqui” tra talebani e governo centrale.
Pompeo ha ricordato la breve finestra di pace avutasi in occasione della tregua di giugno, proclamata in occasione della festa di fine Ramadan, quando il paese assistette a scene mai viste, coi talebani che fecero il loro ingresso nelle città e nei villaggi per fraternizzare con i militari e scattarsi selfie con loro. “L’ultimo cessate il fuoco in Afghanistan”, secondo Pompeo, “ha rivelato il profondo desiderio del popolo afghano di porre fine al conflitto, e speriamo che un altro cessate il fuoco porti il paese più vicino ad una sicurezza durevole”.
L’auspicio del capo del Dipartimento di Stato va letta nel contesto di una guerra che sta costando al popolo americano somme astronomiche e sacrifici immani. Naturale, perciò, che gli Stati Uniti spingano per una risoluzione definitiva di un conflitto da cui lo stesso Donald Trump ha più volte tentato di districarsi. Ma come le dichiarazioni dei talebani evidenziano, il costo della pace potrebbe essere altissimo: il ritorno dell’Emirato islamico significherebbe la fine della parvenza di stato di diritto faticosamente eretto a partire dal 2002 e il ritorno dell’incubo fondamentalista fatto di segregazione femminile, rigorosa censura dei costumi e repressione delle libertà fondamentali dei cittadini.
Un prezzo che potrebbe essere troppo alto anche per un’amministrazione che non ha mai fatto mistero di coltivare una exit strategy da quello che è il conflitto più lungo nella storia degli Stati Uniti.