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L’accordo di Parigi è fallito e abbiamo bisogno di un’agenda globale per il cambiamento climatico

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Dall’inizio della rivoluzione industriale la temperatura della terra è salita di oltre un grado. Con l’accordo di Parigi i 190 paesi firmatari si sono posti l’obiettivo di contenere l’aumento al di sotto dei due gradi, e se possibile di un grado mezzo. Il trattato di Parigi, senza precisi impegni, fatica a produrre effetti misurabili. Gli studi più recenti sui trend delle emissioni lo confermano. Ma anche se fosse applicato non basterebbe a fermare la catastrofe. James Hansen, famoso climatologo americano a lungo in forza alla NASA, definisce lo scenario dei due gradi una “ricetta per il disastro” sul lungo periodo. Per capire di cosa stiamo parlando, un aumento inferiore a due gradi significa la distruzione totale della barriera corallina – la metà è morta quest’anno – il livello dei mari che cresce di alcuni metri e l’abbandono del Golfo Persico.

Per Robert Watson, ex direttore del Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite, lo scenario più plausibile è un aumento di tre gradi. A questa temperatura avremo foreste al circolo polare artico e scomparirà la maggior parte delle città costiere. Con un aumento di quattro gradi l’Europa resta senz’acqua mentre vaste aree della Cina, dell’India e del Bangladesh sono invase dal deserto. La Polinesia è inghiottita dall’oceano e la gran parte del sud degli Stati Uniti diventa inabitabile. Cinque gradi mettono a rischio la sopravvivenza stessa della specie umana. La ricetta per il disastro sul lungo periodo, quei due gradi evocati a Parigi, è ormai divenuta la nostra migliore chance di sopravvivenza. 

Devo questi paragrafi al bellissimo e commovente Losing Earth: the Decade we almost stopped Climate Change”, di Nathalien Rich, pubblicato il primo agosto scorso dal New York Times.

Frutto di diciotto mesi di ricerche realizzate con la collaborazione del Pulitzer Center, “Losing Earth” racconta la storia di quei dieci anni, dal 1979 al 1989, in cui studiosi e politici compresero l’importanza del cambiamento climatico e cercarono di trasformare questa consapevolezza in azione. Furono gli anni del consenso bipartisan, poi divenuto impensabile negli USA, sulla necessità di contenere l’aumento della temperatura. Nello stesso periodo si arrivò alla proibizione dei clorofluorocarburi (CFC) che ha fermato il buco nell’ozono: il primo e unico successo nel campo della protezione dell’ambiente globale. Allo stesso modo, la comunità internazionale puntò a congelare le emissioni con l’ambizioso obiettivo di ridurle del 20 percento entro il 2005. Se ciò fosse avvenuto, l’innalzamento della temperatura sarebbe stato contenuto al di sotto di un grado e mezzo. E avremmo forse evitato la spirale di eventi cui stiamo assistendo. 

Si associarono a questi sforzi anche i campioni dell’industria petrolifera. La ExxonMobil si schierò apertamente contro l’amministrazione Reagan in favore dell’adozione di un nuovo modello nazionale di produzione dell’energia. Nella corsa alla Casa Bianca George Bush senior avrebbe fatto campagna elettorale sui pericoli del cambiamento climatico. Nel giro di pochi anni le cose cambiarono: ExxonMobil avrebbe dichiarato più tardi “che la società (umana) ha tempo sufficiente per garantire l’adattamento tecnologico richiesto dall’effetto serra”. Il fallimento fu politico. Se chi era al governo non temeva gli effetti del cambiamento climatico o non riteneva urgente agire per impedirlo, perché avrebbero dovuto preoccuparsene aziende private?

Il 1989 rappresenta uno spartiacque: l’umanità sarebbe rimasta dipendente dai combustibili fossili. La storia che racconta Rich è quella di questo consenso, degli uomini e delle donne che cercarono di affermarlo e del fallimento che ne seguì. La storia che raccontiamo noi riguarda le scelte ancora possibili, le tecnologie disponibili, gli strumenti economici e finanziari necessari per evitare gli scenari più catastrofali. Il nostro benessere, persino la nostra sopravvivenza dipenderanno in larga misura da quanto in fretta la nostra industria, l’economia e la società saranno adattate a un nuovo paradigma tecnologico. I leader di oggi non sembrano all’altezza del compito di guidare la transizione energetica.

L’ESTATE DEL RISVEGLIO

Le cassandre della scienza sono rimaste inascoltate per trent’anni. La politica, condizionata dai tempi elettorali, ha rimandato ogni decisione importante. L’estate del 2018 sarà ricordata come uno spartiacque: il momento in cui la realtà del cambiamento climatico si è imposta alla percezione dell’opinione pubblica mondiale. Per tutta l’estate i media rincorrono le ondate di calore che hanno colpito l’emisfero nord del pianeta. 119 morti in Giappone, 29 in Corea, 90 in Grecia, qualcuno in California. Le condizioni metereologiche estreme, sempre più frequenti, fanno danni. Il cambiamento climatico è entrato al supermercato. In Germania, gli agricoltori chiedono tre miliardi di aiuti federali. In Belgio scarseggiano le patate. In Inghilterra è stata razionata l’acqua. La vulnerabilità idrica del paese è divenuta un punto di domanda. Cape Town è diventata la prima capitale senz’acqua. Cambiano le abitudini di vita. Usare acqua potabile per scaricare lo sciacquone è probabilmente un lusso che non dovremmo permetterci. Anche in Germania l’abbassamento dei livelli dei fiumi e dei bacini preoccupa. Così come la stabilità della rete elettrica. Il caldo eccezionale ha fermato il vento e gli impianti eolici on e offshore. Il 24 luglio, sui 58.000 Megawatt totali di potenza installata le pale ne hanno prodotti solo 1300. A malapena la potenza di una centrale nucleare. Qualche breve blackout ha colto di sorpresa il paese. Roghi sono divampati nelle foreste della Svezia e in Norvegia, appena sotto al circolo polare artico. Alberi che si accendono come cerini secchi. La gente ha guardato incredula.

Il 6 agosto la National Academy of Sciences degli Stati Uniti d’America pubblica “Trajectories of the Earth System in the Anthropocene. Il contenuto è un urlo. Frutto di un team internazionale di sedici studiosi, tra cui l’oceanografa danese Katherine Richardson, “Le traiettorie del sistema terra nell’Antropocene” spiega come un aumento della temperatura di due gradi può innescare un effetto domino e trasformare il pianeta in una serra. Il clima terrestre è un sistema complesso di processi che interagiscono tra di loro secondo delicati effetti di feedback.  Se si raggiunge una “soglia critica” l’assetto cambia in modo repentino. Una volta innescata, la catena di reazioni non può essere fermata. 

In pochi giorni, “Trajectories of the Earth System in the Anthropocene” viene scaricato 270.000 volte. Un record. 

Johan Rockström, uno degli autori dello studio, intervistato dal Guardian il 17 agosto non è stupito dalla straordinaria reazione dell’opinione pubblica. Dopo dodici anni alla guida dello Stockholm Resilience Centre, lo scienziato, che a ottobre si trasferirà in Germania per dirigere il Potsdam Institute for Climate Impact Research, è convinto che la percezione dei pericoli del cambiamento climatico si stia finalmente affermando. Rockström è speranzoso per il futuro. Oggi è “economicamente e tecnologicamente possibile tagliare radicalmente le emissioni” per contenere l’aumento di temperatura sotto il grado e mezzo. Ciò che manca, almeno per adesso, è la volontà politica per farlo. L’opinione pubblica mondiale giocherà evidentemente un ruolo importante in questa partita. 

Il tempo rimasto è poco. Senza provvedimenti drastici, urgenti e ulteriori rispetto ai modesti impegni di Parigi, lo scenario più realistico è un aumento della temperatura di tre gradi. Rockström e altri hanno elaborato un dettagliato piano di azione. Sarà reso pubblico prima del Summit sul clima che si terrà in California a settembre. Una chiamata alle armi, forse l’ultima, e forse fuori tempo massimo. 

I COSTI ECONOMICI DEL PIANO DI AZIONE

Corrado Clini, ex direttore generale del ministero dell’ambiente italiano e poi Ministro, conosce bene le liturgie e la realtà delle politiche climatiche. Clini condivide l’analisi del “Trajectories of the Earth System in the Anthropocene” e come Rockström è convinto che l’accordo di Parigi sia la porta per l’inferno climatico. “Sono curioso di leggere il piano di interventi di cui parla Rockström”, dichiara l’ex Ministro, “simile, nei contenuti e nel metodo, alla mia proposta di un’agenda globale per l’economia e la geopolitica dei cambiamenti climatici”. Di sicuro, in comune i due piani hanno il punto di partenza: una tassa globale sulle emissioni.

L’accordo di Parigi prevede che gli stati depositino dopo la ratifica gli Intended Nationally Determined Contributions – INDCs. Gli INDCs sono documenti contenenti gli impegni e il dettaglio delle misure che ogni paese assume per realizzare gli obiettivi del trattato. Senza gli INDCs, Parigi rimane una semplice dichiarazione di intenti. 

Analizzando i pochi INDCs depositati, già nel 2017 Clini rilevava come sulla base degli impegni assunti in concreto, nel 2040 il peso dei combustibili fossili scenderebbe al solo 70% del totale dei consumi energetici globali. Si tratta di un risultato distante dal 50% previsto a Parigi, soglia minima necessaria per contenere l’aumento della temperatura al di sotto dei famosi due gradi entro la fine del secolo.

Realizzare i pur modesti obiettivi degli INDCs ha un costo elevato: almeno 15.000 miliardi di dollari in investimenti per infrastrutture e tecnologie. Il raggiungimento degli obiettivi di Parigi, 50% e un aumento della temperatura inferiore ai due gradi, richiederebbe una somma ancora maggiore. La bellezza di 45.000 miliardi di dollari secondo calcoli effettuati dalla Agenzia Internazionale dell’Energia. 

In altre parole, la decarbonizzazione economica costerebbe nei prossimi venticinque anni tra il 20% e il 60% del totale degli investimenti che la stessa AIE prevede sarebbero comunque destinati ai settori energetici tradizionali. Stiamo parlando di ben 68.000 miliardi dollari.

La somma è comunque destinata a salire. L’AIE calcola il solo costo degli investimenti necessari a modificare la matrice energetica del pianeta, cioè spese in infrastrutture critiche e nuove tecnologie. Non include i così detti costi di adattamento. Secondo stime della Banca Mondiale, tra il 2020 e il 2050, saranno necessari dai 70 ai 100 miliardi di dollari all’anno per la remediation, cioè il risanamento dei danni provocati dal cambiamento climatico e l’adattamento alle mutate condizioni ambientali. E questo solo se si prende in considerazione lo scenario più ottimistico e la temperatura sale di “soli” due gradi. I costi crescono esponenzialmente al verificarsi di eventi peggiori.

Solo un’azione coordinata di tutti gli attori della comunità internazionale può assicurare la condivisione e la realizzazione di interventi di tale importanza. La responsabilità di un’agenda globale per l’economia e la geopolitica dei cambiamenti climatici deve essere assunta congiuntamente dai massimi rappresentanti dei governi e delle istituzioni finanziarie internazionali, coinvolgendo anche le grandi multinazionali dell’energia e degli altri settori industriali strategici. La strada dev’essere quella tracciata dal Protocollo di Montréal sulla protezione dello strato di ozono, “esempio di eccezionale cooperazione internazionale: probabilmente l’accordo di maggior successo tra nazioni” secondo l’ex Segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan. 

Se le scadenze elettorali di breve periodo e gli egoismi nazionali prevarranno sulla necessità e l’urgenza della gestione multilaterale dell’interesse comune, l’umanità avrà ben poche carte da giocare. 

TASSARE I COMBUSTIBILI FOSSILI

Al primo punto di un’agenda sul clima ci sono l’introduzione di una tassa sulle emissioni globale (carbon tax) e l’eliminazione dei sussidi per le fonti fossili, che nei maggiori paesi europei ancora ammontano a 112 miliardi di euro spesi ogni anno. Di questi, quasi 50 nella sola Germania.

Sono queste misure che godono di ampio sostegno da parte delle maggiori industrie petrolifere mondiali. Si sono dichiarate favorevoli alla carbon tax: ExxonMobil, British Petroleum, Shell, TOTAL Petroleum, ENI, STATOIL, BG, e più di recente, ARAMCO. Una tassa sulle emissioni avrebbe infatti un doppio vantaggio: impedirebbe la concorrenza sleale sul mercato globale dell’energia, stimolando al contempo la competizione e l’innovazione tecnologica. Le risorse economiche generate dovrebbero infatti essere reinvestite per lo sviluppo e il miglioramento delle tecnologie pulite e delle infrastrutture necessarie.

Il successo della transizione energetica dipende sia dalla realizzazione di nuove infrastrutture per la generazione di energia a basso o zero contenuto di carbonio, sia dall’adattamento delle infrastrutture energetiche esistenti a supporto della decarbonizzazione dell’economia del pianeta. Se il futuro dell’economia a basso contenuto di carbonio è fondato su elettricità prodotta da fonti rinnovabili, le reti di trasmissione e distribuzione esistenti non sono adeguate o sufficienti. Per costruire la spina dorsale della transizione energetica, sarà necessario realizzare un pacchetto di investimenti mastodontici e su scala globale. E superare la paura per le grandi opere. In altra sede abbiamo parlato dell’interconnessione energetica globale, l’ambizioso piano cinese per realizzare l’internet dell’energia e sfruttare a pieno il potenziale delle rinnovabili.

Tornando alla carbon tax, la sua ratio economica è chiara. Se venisse applicata una tassa di 50 dollari su ogni tonnellata di greggio venduto negli USA, si genererebbero entrate aggiuntive per almeno 300 miliardi di dollari su base annua. Risorse assolutamente necessarie per sostenere i costi della decarbonizzazione.

LA FINE DEL CONSUMO DI MASSA?

Se l’economia attuale è basata sugli idrocarburi, l’introduzione di una carbon tax avrebbe l’effetto di modificare la matrice energetica dell’economia, nonché i modelli di produzione e consumo di beni e servizi.

Da Marx in poi sappiamo che ad un dato paradigma energetico e industriale corrispondono struttura sociale e modelli di consumo differenti. Pensiamo al boom avvenuto nel settore del trasporto aereo. Negli ultimi 24 anni il traffico aereo è aumentato dell’80% e della stessa percentuale sono aumentate le emissioni di CO2 del trasporto aereo. Nel solo 2017, con 4,1 miliardi di passeggeri, si è registrato un aumento del 7,1% rispetto al 2016. Se il trend di crescita restasse invariato, assisteremmo ad un ulteriore aumento del 45% delle emissioni di anidride carbonica e del 43% di quelle di azoto entro il 2035. Una prospettiva che non è sostenibile.  

L’effetto della carbon tax sul settore del trasporto aereo sarebbe probabilmente immediato. Il prezzo dei biglietti, incorporando il costo ecologico, cioè il prezzo corrispondente del carbonio, comincerebbe a salire. Il numero di passeggeri diminuirebbe di conseguenza.

L’incredibile crescita del traffico aereo a livello globale è stata infatti resa possibile anche dal generale abbassamento dei prezzi dei biglietti, fino agli eccessi dei vettori low-cost. L’aumento della mobilità internazionale che ne è conseguita è al tempo stesso causa e effetto del boom del turismo di massa mordi e fuggi. Un fenomeno che ha ulteriori pesanti ricadute sull’ambiente.

L’industria aereonautica, come quella delle costruzioni navali, è quindi un settore chiave per la realizzazione di una seria politica climatica. Se è vero che alcuni miglioramenti tecnologici, il rinnovo parziale delle flotte e, in generale, una più efficiente gestione del traffico, hanno contribuito a contenere, almeno in parte, l’aumento delle emissioni, l’evoluzione tecnologica nel settore non tiene il passo con la crescita esponenziale della domanda di mobilità di massa.

Un capitolo a parte meriterebbe l’industria navale, fino ad oggi appena sfiorata dagli obblighi di riduzione delle emissioni.

Se la carbon tax è ancora un’ipotesi, la sostenibilità del modello di consumo esistente comincia a essere seriamente messa è in discussione. Di recente, hanno trovato ampia eco sulla stampa tedesca ipotesi di regolamentazione e limitazione del traffico aereo. Tra le misure evocate: il divieto di voli nazionali destinato a favorire principalmente l’utilizzo del treno, e la limitazione del numero di voli per passeggero su base annua, se tenendo conto delle esigenze di chi viaggia per lavoro.   

LE INFRASTRUTTURE CRITICHE: LA RETE ELETTRICA 

Il ruolo cruciale delle infrastrutture energetiche per le politiche di decarbonizzazione è dimostrato in modo esemplare dal caso della Germania.

Dopo la catastrofe di Fukushima, la Cancelliera Angela Merkel ha stabilito l’uscita dal nucleare e contestualmente l’accelerazione della transizione energetica nazionale, l’Energiewende, e la decarbonizzazione dell’economia tedesca. 

La decisione della Cancelliera ha avuto un costo: con la chiusura delle centrali, le emissioni hanno ripreso a crescere. L’abbandono dell’atomo ha inoltre reso necessario ridisegnare rapidamente il sistema elettrico e le reti di trasmissione e distribuzione del paese.

Le centrali nucleari infatti sono grandi generatori di energia elettrica. A mano a mano che queste vengono staccate dalla rete, devono essere sostituite le capacità elettriche perdute. Progressivamente, la produzione elettrica si sposta geograficamente dal sud, dove erano concentrati gli impianti nucleari, verso il nord e l’est, dove si trovano invece i grandi parchi eolici del paese. La domanda di energia è invece prevalentemente al sud e nelle regioni dell’ovest, sedi dei grandi distretti industriali e manifatturieri che muovono l’economia tedesca. L’energia quindi deve essere trasportata su grandi distanze dal nord al sud e verso l’ovest. La rete di trasmissione e distribuzione esistente oggi, pensata per un sistema gerarchico e centralizzato di generatori tradizionali – impianti a carbone o centrali nucleari – è insufficiente e inadeguata.

Pertanto, devono essere costruite con urgenza nuove “autostrade” elettriche, in primo luogo reti di trasmissione ad alta potenza. Il termine entro il quale i lavori dovranno essere realizzati è il 2022, quando l’ultima centrale nucleare sarà chiusa. Pena l’insufficiente fornitura di energia all’industria e ai consumatori e il rallentamento dell’economia tedesca.

Un primo piano di investimenti, predisposto con una legge del 2009, detta Energieleitungsausbaugesetz (EnLAG) prevedeva la costruzione di 1800 km di nuove linee. Dopo Fukushima, si rese però necessario procedere ad interventi più ambiziosi e nel 2013 venne licenziata una nuova legge che definiva il nuovo piano di fabbisogno nazionale (Bundesbedarfsplangesetz). 

La legge prevede 3050 km di interventi programmati di potenziamento della rete esistente e 2900 km di nuove costruzioni. Secondo dati ufficiali, dei 7700 km di lavori necessari, per 1750 si è giunti al termine delle procedure di autorizzazione, mentre solo 950 sono stati effettivamente realizzati. Un ritmo decisamente troppo lento, anche a causa della spesso pregiudiziale resistenza degli abitanti delle aree di transito delle nuove linee, secondo un fenomeno ben noto in Italia.

Non stupisce quindi che il Ministro dell’Economia, Peter Altmaier, nel presentare un piano d’azione a Berlino lo scorso 14 agosto, abbia annunciato una serie di decisioni volte ad accelerare i tempi delle procedure e quindi una più celere realizzazione dei lavori. 

La resistenza delle popolazioni interessate peraltro, è stata particolarmente vivace laddove fosse prevista la costruzione di reti ad alta tensione a corrente diretta, necessarie in un sistema sempre più dipendente dalle rinnovabili. Per queste infrastrutture critiche, nel 2015, si è deciso l’utilizzo di cavi interrati, con l’avvio di nuove procedure di autorizzazione, nonché il levitare dei costi originariamente preventivati.

IL MERCATO UNICO DELL’ENERGIA

La transizione ad un sistema energetico a basso contenuto di carbonio, richiede la trasformazione strutturale del settore elettrico e, parallelamente, livelli elevati di penetrazione delle energie rinnovabili. L’impatto e l’impulso dell’innovazione nel sistema devono essere guidati a livello della regolazione, della struttura dei mercati elettrici, sul piano dello sviluppo e della riduzione dei costi di componenti critici quali il dispacciamento flessibile, adeguate capacità di sistema e, soprattutto, di stoccaggio. Si tratta di una sfida significativa: agli impegni politici sulla decarbonizzazione dovranno fare seguito  coerenti  scelte industriali e le innovazioni per la trasformazione dei mercati energetici e elettrici in prima linea. Come sempre, la risposta è l’Europa.  

La rete elettrica, in Germania come ovunque a livello globale, deve essere inoltre ridisegnata per adattarsi ad un ulteriore cambiamento sostanziale intervenuto a seguito dell’introduzione dell’energia “verde”. 

Tradizionalmente, le reti di trasmissione elettrica sono disegnate, e funzionano, come una strada a senso unico di circolazione, per consegnare l’elettricità dall’impianto generatore, normalmente di grande dimensione, ai consumatori. Si tratta di un sistema gerarchico e centralizzato. Oggi, praticamente tutti gli impianti di generazione che sfruttano l’energia solare o le turbine eoliche alimentano la rete di distribuzione e immettono direttamente energia elettrica. Quello che infatti non viene consumato a livello locale, in prossimità del punto di produzione, fluisce in direzione opposta. Questo, insieme alla variabilità della generazione da rinnovabili comporta una riqualificazione delle reti di distribuzione elettrica per assicurarne tanto la stabilità, quanto l’efficienza.  

Il mercato unico dell’energia a livello europeo gioca anch’esso un ruolo chiave nello sviluppo e nell’espansione delle reti in Germania come negli altri paesi europei. Migliorare le infrastrutture di trasporto sia all’interno degli stati membri che tra questi ultimi è un passo decisivo per consentire che l’energia viaggi liberamente su tutto il territorio dell’Unione, sia allocata nel modo più efficiente e al prezzo più conveniente possibile per il consumatore finale.

Peraltro, il diverso prezzo dell’energia, incidendo sui costi di produzione delle merci nei vari paesi, rappresenta attualmente una delle ragioni della diversa competitività delle industrie nazionali. Per assicurare crescenti livelli di integrazione, i principali operatori di reti a livello europeo sono tenuti a presentare piani di sviluppo congiunto ogni due anni. 

È importante ricordare in questo senso il così detto Pacchetto Invernale dell’Unione sull’Energia del 2016/17 il cui obiettivo è giungere a un mercato dell’energia completamente integrato, “de-carbonizzato” e garantire sicurezza della fornitura attraverso una maggiore collaborazione tra gli stati membri. La collaborazione all’interno di un sistema europeo permetterebbe la convergenza delle strategie regionali per assicurare il miglior uso possibile delle infrastrutture europee dell’elettricità. 

D’altra parte, la stessa decisione tedesca di uscire dall’atomo è stata resa possibile dalla connessione delle reti tedesca e francese. Sono infatti gli impianti nucleari di Parigi a contribuire alla stabilizzazione della rete di Berlino, sempre più dipendente dalla variabilità delle rinnovabili, come l’andamento della produzione di quest’estate ha dimostrato.

In sostanza, Il crescente contributo delle rinnovabili, con la maggiore discontinuità e complessità che ne consegue, insieme alla integrazione graduale dei mercati nazionali nel mercato comune europeo fa sì che i meccanismi di mercato – e i singoli operatori – siano sempre meno capaci di rispondere ad esigenze di sicurezza e stabilità del sistema.

I COSTI DI ADATTAMENTO

L’estate del 2018 ha portato le prime avvisaglie della tempesta che investirà il pianeta. Gli scenari sono devastanti: molti paesi ad alta vulnerabilità ambientale e in via di sviluppo saranno messi in ginocchio e decine di milioni di persone si metteranno in marcia per sfuggire alla catastrofe. Impareremo a parlare di rifugiati climatici. Resisteranno solo i paesi tecnologicamente e socialmente avanzati, quelli dotati delle risorse necessarie a riorganizzare la vita: infrastrutture, sistemi sociali e servizi. Si dovrà pagare molto per far fronte al mutamento drammatico e repentino delle condizioni ambientali. Il Notre Dame Global Adaptation Index analizza e classifica, sulla base dei rispettivi livelli di resistenza al cambiamento climatico, 181 paesi. Quest’indice sintetico di resilienza considera una serie di fattori significativi: l’efficienza dei sistemi sanitari, la disponibilità, l’accesso e la capacità di produzione di derrate alimentari, la stabilità del governo, la coesione sociale etc. The Eco Experts, un sito inglese, ha utilizzato il “Notre Dame Global Adaptation Index”, per realizzare mappe che mostrano la distribuzione del rischio sul pianeta. Se la Norvegia è in testa alla classifica e l’Italia moderatamente a rischio, i paesi africani sono dati per spacciati.

Chi parla oggi di emergenza migratoria in Europa oggi non sa quello che ci aspetta.

 


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