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Garantisti con Salvini, ma negli altri casi? Cosa sta succedendo in Basilicata

“È meglio correre il rischio di salvare un colpevole piuttosto che condannare un innocente”, scriveva Voltaire. Perché un colpevole è colpevole e resta colpevole. Non c’è niente da fare. Un innocente è innocente ma è tremendo quando viene indicato colpevole per partito preso o peggio per sentenza non giudiziaria ma politica. Eppure in Italia (è bene ricordarlo) per Costituzione nessun uomo, nessuno escluso, è colpevole prima dell’ultima sentenza dell’ultimo grado di giudizio. Nessuno è colpevole per presunzione. Tutt’altro: si è innocenti per diritto. Si diventa colpevoli solo quando il terzo giudice emette la sentenza di colpevolezza. Non un minuto prima.

Questo vale per principio. Principio però che a quanto pare non vale per Marcello Pittella. Per Marcello Pittella uomo, per Marcello Pittella medico, per Marcello Pittella padre, per Marcello Pittella politico. Per Marcello Pittella presidente della Regione Basilicata. “È colpevole e va condannato” hanno deciso dal basso e pure dall’alto di qualche parte della regione e forse non solo. Punto. Poco conta che le regole giudiziarie siano diverse. Poco conta che Marcello Pittella in realtà sia solo indagato e che abbia tutto il diritto di difendersi e dimostrare la propria innocenza. Poi non dovesse essere così sarà condannato. Amen. Ma questo è tutto ancora da dimostrare e ci vorranno mesi e mesi se non anni perché si arrivi a una sentenza definitiva su Marcello Pittella innocente o Marcello Pittella colpevole.

Ma ciò purtroppo (e non solo per Marcello Pittella ma per l’intero architrave democratico su cui si poggia lo spirito civile di un Paese che contra tra i propri padri Cicerone, Virgilio, Seneca, Leonardo, Michelangelo, Dante, Leopardi, Foscolo solo per citare alcuni dei cervelli che dovrebbero essere nel dna di ciascun italiano) non sta avvenendo. Non sta avvenendo ed è il sintomo più grave di una malattia che ha colpito la nostra nazione, la nostra cultura, il nostro spirito civico, il nostro rispetto delle regole, la nostra umanità, il nostro pensiero. Una malattia che di chiama: stupidità, ignoranza e furbizia. Una malattia che sazia gli appetiti più beceri riempendo la ‘pancia’ e appiattendo l’analisi e la mente. In questo contesto non si salva e non si salverà nessuno.

Oggi tocca a Marcello Pittella. Domani toccherà a qualcun altro. In passato è già accaduto, purtroppo. Non è una mera questione di giustizialismo esasperato o di populismo. O come qualcuno preferisce ‘qualunquismo’. No. È qualcosa di ben più preoccupante. Si tratta di una sorta di sentimento anarchico (sì anarchico) che attraversa la modernità sociale e politica dell’intero continente. Lo descrive bene Gianluca Solla in ‘Memoria dei senzanome’ che raccontando “una breve storia dell’infimo e dell’ìnfame, in cui trovano posto straccivendoli, rovine, sottoproletari, poveri e poverissimi, perdigiorno, banlieues, slums, plebi e clandestini, irregolarità di ogni sorta” accomunati dall’eccedenza rispetto a un logos normativo e normalizzante, impotente e infastidito dalla stessa esistenza di ciò che si sottrae alla sua presa. In poche parole ci sarebbe un sentimento ‘anti’ che prevede la demolizione del potere tradizionale e di chi lo detiene con lo scopo di una sorta di sostituzione non dal basso ma verso il basso. E tanto più se politicamente ed elettoralmente la cosa appare complicata allora diventa suggestivo, e in qualche caso praticabile, il cambio dello status attraverso operazioni anche poco ortodosse. Il rischio evidente è che nel nome di un cambiamento più proclamato che effettuato o di famigerati ‘accerchiamenti di palazzi’ tutto possa diventare lecito. E in questo nuovo scenario di comportamenti non meraviglia affatto che si possano perdere i confini del giusto e dell’ingiusto.

E così poco importa il metodo o il merito. Da qui il dubbio che Marcello Pittella, evidentemente in nome di una antipatia o di una visione politica diversa, vada demolito e basta. È ai domiciliari da 50 giorni circa. Ma non basta. Poco conta che quella misura chiamata appunto cautelare sia stata immaginata come forma di ‘cautela’ e non come forma di condanna preventiva. Eppure molti utilizzano questo come grimaldello per forzare processi che dovrebbero essere solo politici. Evidentemente si dimentica che i magistrati indagano non emettono sentenze. Assistiamo quindi a un triste teatrino che consiste nello sventolare le tesi accusatorie e farne manifesti per una vera e propria gogna mediatica senza precedenti nella storia politica e mediatica lucana. Tutto questo, senza che nessuno si ponga il problema dell’esistenza anche delle tesi difensive che, per ritornare a Voltaire, dovrebbero avere ben più rilevanza visto che si parla del destino di un uomo, innocente. Fino a prova contraria.


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