La crisi militare nella penisola coreana ha riacceso ancora una volta, e non poteva essere altrimenti, i riflettori mondiali sul regime di Pyongyang, ormai da decenni rinchiuso in se stesso e circondato da un’aura di mistero. Le immagini rilanciate dall’unica agenzia di stampa nordcoreana sono la sola, e per questo inattendibile, finestra sulla dittatura dei Kim, la famiglia che dal 1948 (anno di proclamazione della Repubblica democratica popolare di Corea) mantiene ininterrottamente il potere.
Razza purissima
Quella che vige in Corea del Nord è infatti una vera e propria monarchia ereditaria improntata su di un assolutismo degno del Re Sole, che in maniera anacronistica ricorda la Cina di Mao, dove il culto della personalità del “Grande Timoniere” è rivolto invece al “Grande Leader” Kim Il-sung, fondatore dello stato.
L’ultimo avamposto del comunismo mondiale, dunque, sembra essere questo piccolo angolo di Asia: eppure, a guardarlo più da vicino, il regime di Pyongyang esprime una caratteristica diametralmente opposta a quella rivelata fino ad oggi. E non solo perché dal 2009 è scomparso dalla Costituzione il termine “comunista” o i riferimenti a Marx nei discorsi ufficiali sono pressoché assenti.
Dietro le bandiere rosse, il culto della personalità, l’economia pianificata e la dottrina, che in tutto e per tutto riecheggiano lo stalinismo, ci sarebbe un’ideologia che pone le sue radici in quella nazifascista: ne è convinto il professor Brian Reynolds Myers dell’Università Donseo di Pusan (Corea del Sud), che su questo tema nel 2010 ha pubblicato uno saggio-studio intitolato “The Cleanest Race” (La razza purissima).
Studiando da vicino la macchina della propaganda nordcoreana, Myers è giunto alla conclusione che alla base del regime dei Kim ci sia un culto della superiorità della razza simile, in molti aspetti, a quello che Hitler aveva instaurato nella Germania nazista: come fu per il Terzo Reich, anche per Pyongyang esisterebbe un solo popolo eletto, quello nordcoreano.
Myers ha analizzato come le dichiarazioni ufficiali del regime e i servizi della televisione statale utilizzino termini dispregiativi nei confronti degli stranieri (in primis americani e giapponesi), volti a evidenziare la loro “palese inferiorità” rispetto ai “purissimi” coreani.
Oggetto di attacchi mediatici – rileva lo studio – sono soprattutto gli americani, che la propaganda del regime mostra come banditi dediti alla violenza su donne e bambini, dal corpo sporco e sempre di pelle scura, a cui viene puntualmente contrapposta l’immagine sorridente e rassicurante di un soldato nordcoreano (o dello stesso Kim Il-sung), rappresentato per antitesi con il viso pulito e bianchissimo.
Ma ad essere puntualmente descritti come esseri sottosviluppati sono anche gli “amici” socialisti cubani e cinesi, verso i quali il mito della superiorità della razza nordcoreana non si fermerebbe al solo profilo ideologico.
Myers racconta di un’aggressione a sfondo razziale subìta da un diplomatico di colore dell’Ambasciata dell’Avana a Pyongyang, mentre la xenofobia nei confronti dei cinesi si manifesterebbe in orrende attività di eugenetica nei confronti delle donne che, emigrate per lavoro nella vicina Repubblica Popolare, fanno ritorno in patria in stato di gravidanza: stando alle testimonianze di alcuni esuli e di attivisti per i diritti umani, le ragazze verrebbero costrette ad abortire in nome della purezza del sangue nordcoreano, elemento di forza e superiorità.
Radici lontane
Da dove avrebbe avuto origine questa ideologia di chiaro stampo nazista? Secondo il professor Myers, bisogna risalire all’immediato dopoguerra, quando la penisola coreana venne liberata dall’occupazione giapponese che durava dal 1910.
In 35 anni di dominio nipponico, che aveva ridotto praticamente alla schiavitù il popolo, le giovani generazioni coreane erano state allevate nel mito del militarismo di stampo fascista che all’epoca dominava in Giappone e ricevuto una formazione culturale incentrata sul concetto di superiorità della razza nipponica. Proprio coloro che i giapponesi avevano indottrinato per farne i futuri “proconsoli” nella Corea occupata sarebbero stati, secondo Myers, l’arma vincente di Kim Il-sung nella sua ascesa al potere.
Durante il suo esilio in Urss, Kim aveva infatti avuto modo di conoscere lo stalinismo, di cui era rimasto affascinato, ma al contempo aveva conosciuto bene anche Stalin, e sapeva di non potersi fidare né di lui, né degli altri comunisti indottrinati a Mosca e ritornati in Corea con l’intento di instaurarvi un regime “fratello” di quello staliniano: dietro l’aiuto ricevuto dai sovietici durante la guerra di liberazione, Kim sospettava a ragione che si celassero le ambizioni del Cremlino di fare della Corea un paese satellite dell’Urss. E lui, predestinato alla guida, avrebbe dovuto render conto del suo operato a Mosca, con il concreto rischio di dipendere dalle paranoie personali di Stalin.
Per questo motivo Myers ritiene che, subito dopo la proclamazione della Repubblica democratica popolare a nord del 38° parallelo, Kim iniziò a liberarsi dei comunisti legati più a Mosca che a lui, per sostituirli con uomini d’apparato in passato collusi con gli occupanti giapponesi. Personaggi dalle idee tutt’altro che marxiste, che con il nuovo potere condividevano solo l’odio viscerale verso gli Usa, ma potevano consentire a Kim di disporre di un esercito di funzionari fedeli: conservando di fatto la passata autorità, questi uomini d’apparato riciclati garantivano a Kim il controllo sulle varie amministrazioni dello Stato.
Collasso
Nel giro di pochi anni, un processo inarrestabile di neo-ideologizzazione coinvolse l’esercito, la polizia, le fabbriche, la scuola: di pari passo con il consolidamento del potere assoluto di Kim, la Corea del Nord veniva indottrinata ad un’ideologia formalmente socialista, ma che inglobava aspetti estremamente reazionari basati sull’idea di superiorità della razza coreana, un concetto importato in toto dal razzismo nipponico e frutto del peso che gli ex collaborazionisti avevano acquisito nella costruzione della nuova Repubblica.
Un percorso che sarebbe sopravvissuto anche alla guerra contro la Corea del Sud (1950-1953) e culminato nel 1955 con la proclamazione della Juche, ideologia di Stato che inglobava elementi di socialismo tipici delle democrazie popolari, ma li collocava in un ambito ultranazionalista degno dei peggiori regimi dittatoriali di estrema destra.
Non solo: elemento di assoluta novità per la Juche era l’apoteosi di Kim, ovvero l’elevazione del leader nordcoreano ad un ruolo quasi divino (con tanto di calendario decorrente dalla sua nascita, il 15 aprile 1912), molto simile per certi versi a quello attribuito all’imperatore del Giappone negli anni antecedenti la Seconda Guerra mondiale.
Dunque, allo scoccare del 103° anno di Juche, toccherà al nipote di Kim Il-sung, il trentenne Jong-un, canalizzare quest’odio fortissimo verso gli yankees in un conflitto atomico?
L’ipotesi che la crisi coreana possa risolversi con una guerra è reale, è, al momento, la più remota tra le varie opzioni. Il mistero di cui Pyongyang si circonda non contribuisce certo a fare chiarezza su cosa davvero voglia fare la Corea del Nord con il suo piccolo arsenale atomico, ma la sensazione è che dietro le minacce e le esibizioni muscolari ci sia un regime sull’orlo del collasso economico e politico, dove si starebbero fronteggiando due fazioni: una fedele a Kim Jong-un, l’altra al potentissimo apparato militare su cui il giovane rampollo dei Kim non riesce ancora ad avere autorità.
Dietro Kim ci sarebbe l’ala riformista del regime, che starebbe tentando il tutto per tutto per salvare il paese dal baratro: a ciò si collegherebbe il ritorno al ruolo di premier di Pak Pong-ju, ex primo ministro silurato nel 2007 perché giudicato troppo filo-occidentale dai generali. Una nomina che potrebbe essere il canto del cigno di un sistema prossimo alla fine: il fatto che lo storico alleato cinese abbia smesso di difendere Pyongyang in sede Onu e che abbia ammassato truppe al confine nel timore di un afflusso di profughi nordcoreani, lascia intendere che Pechino abbia delle informazioni più dettagliate e si stia preparando a qualcosa di cui le altre potenze mondiali potrebbero non essere a conoscenza.
Alessandro Ronga è giornalista e collaboratore del settimanale “Il Punto”.