Sull’argomento pensioni d’oro ci siamo cimentati spesso, difendendo le categorie professionali che rappresentiamo: lo abbiamo fatto, sempre, in punta di diritto, come una questione di principio e mai come una rivendicazione – pur legittima – degli interessi sacrosanti di dirigenti, quadri, alte professionalità. Oltre alle argomentazioni giuridiche, fattesi sempre più articolate visto che ormai si sta tentando di operare retroattivamente su diritti previdenziali acquisiti, abbiamo proposto temi a noi cari per tentare di far capire il ruolo che i manager dovrebbero avere nella società: il valore delle competenze e dell’etica nel lavoro, il riconoscimento del merito e dell’impegno professionale. Un lavoro faticoso per tentare di forare con la goccia della perseveranza dei nostri iscritti, dei nostri rappresentanti (a tutti i livelli), delle nostre iniziative, la dura pietra dell’indifferenza della politica e della facile scorciatoia rappresentata dagli slogan denigratori.
Perché quello delle pensioni d’oro, appunto, non è che un becero slogan, coniato nel tentativo di dare dignità ad una serie di provvedimenti legislativi iniqui e pericolosi. Iniqui per chi li subisce con i blocchi della perequazione, i numerosi contributi di solidarietà, per arrivare al mostro giuridico del ricalcolo contributivo che nasconde, in realtà, una revisione al ribasso dei trattamenti pensionistici del tutto arbitraria e illegittima. E sono pericolosi per l’intera società, perché incrinano il patto sociale fra lo Stato ed i cittadini; inoltre poiché sono accompagnati da una potente propaganda orientata a crocifiggere con false accuse determinati ceti sociali, fomentano l’odio sociale e distolgono l’attenzione dell’opinione pubblica dai veri problemi del Paese.
Quali sono? Basta leggere le cifre: in Italia l’evasione fiscale è ormai stimata in oltre i 130 miliardi di stock, con una perdita di gettito superiore ai 38 miliardi l’anno: ben più di quanto, faticosamente, stanno tentando di mettere insieme al ministero dell’Economia per la manovra di fine anno. Solo per l’Iva, dato ancora più recente, il nostro Paese è fra i primi evasori europei, con un mancato gettito 2016 pari a poco meno di 36 miliardi di euro. Ancora un dato, quello delle agevolazioni e detrazioni fiscali: altra giungla fiscale cresciuta a dismisura nel tempo, complici favoritismi elettorali e leggine compiacenti. Ma anche un altro tesoretto visto che da un riordino mirato ed intelligente delle agevolazioni fiscali si potrebbero ricavare 5 miliardi di euro.
Eppure di fronte a questo vero scandalo del sistema-Paese, un cancro che ne divora le risorse, ne impedisce lo sviluppo e, va detto con chiarezza, impedirà il mantenimento del livello di welfare State finora conosciuto, non leggiamo invettive, né siamo al corrente di nuove leggi pensate per cambiare la situazione, mettere alla gogna gli evasori fiscali e recuperarne gli indebiti guadagni. Pochi giorni fa, come Cida, abbiamo voluto rinnovare l’appuntamento con l’indagine di “Itinerari Previdenziali” sul rapporto fra le tasse (e chi le paga) ed il welfare che potremmo perdere. Noi manager rivendichiamo un ruolo come parte importante della classe dirigente di questo Paese. Di conseguenza, non possiamo stare a guardare di fronte ad un tema nevralgico per lo sviluppo del Paese. Né possiamo limitarci a lamentarci delle cose che non vanno.
In Italia, sono in attività poco più di 800mila manager fra dirigenti e quadri apicali, ai quali si aggiungono quasi un milione di manager pensionati. Un milione e 800 mila manager che nel 2016 hanno versato circa 50 miliardi di tassazione Irpef su un totale di 163,4 miliardi di gettito nazionale. Quindi il 3% della popolazione costituita da manager ha versato il 30% del gettito Irpef. Uno squilibrio evidente che sta a dimostrare l’incongruenza di un fisco sempre più ‘concentrato’ sui percettori di reddito fisso – lavoratori dipendenti e pensionati – mentre cresce l’area dell’evasione e dell’elusione fiscale. Ormai il solo gettito dell’Irpef è insufficiente a coprire le spese di sanità e assistenza. Nel 2016 sono venuti a mancare una quarantina di miliardi, cinquanta se si considera la restituzione del bonus di 80 euro. Come si finanzierà un welfare sempre più ‘allargato’? Come si potranno pagare le pensioni assistenziali ai circa 10 milioni di soggetti che non dichiarano nulla ai fini Irpef?
Certo le concitate cronache economiche di questi giorni non inducono all’ottimismo: la flat tax è come un fiume carsico che sparisce e ricompare. Le ultime notizie la vedrebbero sostanzialmente circoscritta ad alcune categorie: professionisti, partite Iva e Pmi. Siamo lontani da quello spirito ‘rivoluzionario’ e libertario che ha animato dibattiti relativamente recenti sulla flat tax e che ci videro convinti sostenitori nella logica di snellire le procedure fiscali, alleggerire l’enorme pressione fiscale sui redditi medio-alti e liberare risorse per finanziarie l’assistenza. Ma continueremo a professare ottimismo e cercheremo di far prevalere la concretezza dei numeri sia di fronte alle fughe in avanti, sia nei casi di pavidi dietrofront. E di cifre il rapporto di Itinerari Previdenziali ne fornisce numerose. Se consideriamo gli scaglioni di reddito più elevati, dai 55mila euro lordi fino ai 300mila euro lordi, si scopre che il 4,36% dei contribuenti paga il 36,5% di tutta l’Irpef. E paga per tutto l’arco della vita lavorativa e continua a pagare da pensionato, finanziando tutto il welfare, anche di chi non ha versato imposte e/o contributi. Il rapporto di Itinerari Previdenziali ci dimostra che il sistema è al limite, perché non riusciamo più a sostenere il sistema delle prestazioni sociali né, tantomeno, a reperire le risorse necessarie agli investimenti ed allo sviluppo del Paese. Noi, da parte nostra, non possiamo non denunciare l’ennesimo tentativo di drenare risorse dalle pensioni medio-alte verso le casse dello Stato. Eppure le cifre che abbiamo fornito dicono altro: dicono che in Italia non c’è il problema delle pensioni d’oro, ma c’è quello dell’evasione fiscale e contributiva.
In un recente articolo l’economista Luigino Bruni ha affrontato proprio questo tema: “Se oggi guardiamo chi sono i veri ricchi, i lavoratori sono molto pochi, abbiamo soprattutto percettori di rendite, nelle sue varie forme. E le rendite non sono né salari, né profitti, quindi né pensioni. Se il governo vuole colpire le rendite, e farebbe molto bene, non deve iniziare dalle pensioni, perché il 90% di quelle che vengono chiamate pensioni d’oro sono legate al lavoro. E perché buona parte dei veri ricchi (che non sono pochi) non ricevono pensioni d’ oro perché hanno residenze all’ estero, sono ‘elusori’ o evasori totali, e alcuni non hanno mai lavorato veramente. I redditi d’oro non prendono quindi la forma delle pensioni, se non in pochissimi casi, e non sono certo quelle che si aggirano attorno ai 4.000 euro al mese (ma sono molto, molto, più alte). Prima di cambiarle, le pensioni da lavoro vanno rispettate come si deve rispettare il lavoro che le ha generate”.