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Dentro lo Stato e la Democrazia – In breve, passaggi di “giudizio storico”

In questa riflessione si intende approfondire l’evoluzione dello Stato e della Democrazia nell’attuale momento storico. Inizio da una domanda, illuminante e strategica, di Sabino Cassese  (2016, pag. 39): Il declino dello Stato pone (…) un problema più grande: se lo Stato è il luogo dove si è sviluppata la democrazia, che cosa succederà a quest’ultima se lo Stato dovesse scomparire o divenire meno importante ? Essa evaporerà ? Oppure sarà rimpiazzata da una democrazia cosmopolitica ?

Viviamo immersi in un cambio d’era, in una fase di profonda transizione che il sociologo Ulrich Beck definisce di metamorfosi e non solo di cambiamento. Egli scrive (2016, Premessa): Il “cambiamento” concentra l’attenzione su una caratteristica del futuro nella modernità – la trasformazione permanente -, mentre i concetti di base, e le certezze su cui poggiano, rimangono costanti. La metamorfosi, invece, destabilizza proprio queste certezze della società moderna.

Nei fatti, cosa sta agendo in profondità e radicalmente ? Quali sono i fattori che “destabilizzano” le nostre certezze consolidate, che pongono in metamorfosi tutto ciò che, in particolare lo Stato-Nazione e la Democrazia rappresentativa,  conosciamo e riconosciamo ?  

Potremmo dire, genericamente, che sono le sfide planetarie, della globalizzazione, a determinare tutto questo. La risposta non sarebbe sbagliata perché, nel mondo di oggi, nulla può più dirsi “locale”, nessun processo storico è comprensibile all’interno di confini statuali, fissi e immutabili. C’è qualcosa, però, che più di altro ci porta nel mondo-in-metamorfosi; è la cosiddetta “quarta rivoluzione”, quella spiegata dal filosofo Luciano Floridi (2017). Egli scrive (pag. IX): (…) siamo abituati a considerare le ICT come strumenti mediante i quali interagiamo con il mondo e tra noi. In realtà, tali tecnologie sono divenute forze ambientali, antropologiche, sociali e interpretative.

Questo dato comporta il necessario ripensamento della natura della nostra convivenza umana e delle forme della sua organizzazione. Il tutto, come si diceva prima, immerso in un contesto storico nel quale le grandi sfide planetarie, portatrici – al contempo – di evidenti opportunità e di altrettanti rischi e minacce, fanno sempre più parte della nostra quotidianità, in una realtà che si è “disintermediata” con il crollo delle ideologie novecentesche.

Il potere stesso non è più immediatamente riconoscibile in luoghi a noi vicini e in soggetti a noi conosciuti (in particolare, lo Stato). Sul punto del potere scrive Ennio Di Nolfo (2016, pag. 14): Joseph Stiglitz (…) propone una definizione classica: “Il pproblema non è se la globalizzazione sia buona o cattiva”, bensì il modo in cui i governi la gestiscono. In altri termini, il problema non è creato dall’invenzione della rete di Internet ma dal modo in cui essa viene usata, dai modelli di interazione che crea. Lo stesso concetto di potere non può più essere collegato, in termini quasi automatici, a determinati soggetti, poiché “non è più identificabile nei luoghi dove lo si percepisce, bensì anche in luoghi molto lontani”.

In un nuovo “ordine informazionale”, Floridi (2017, pag. 202) analizza l’impatto su alcuni fattori, primo fra tutti il potere. Egli scrive: Il passaggio dall’ordine storico, di Vestfalia, alla complessa situazione iperstorica post-Bretton Woods, alla ricerca di un nuovo equilibrio, può essere spiegato riferendosi a molti fattori. (…) In primo luogo, il potere. (…) le ICT “democratizzano” i dati e il potere di processarli e di controllarli, nel senso che adesso entrambe queste facoltà tendono a risiedere e a moltiplicarsi in una moltitudine di archivi e fonti. Pertanto, le ICT possono creare, abilitare e potenziare un numero potenzialmente infinito di agenti non statali, dal singolo individuo alle associazioni e ai gruppi, dai macro-agenti, come le multinazionali, alle organizzazioni internazionali, sia governative che non governative, e alle istituzioni sovranazionali. Lo stato non è più l’unico, e talora neppure il principale, agente nell’arena politica in grado di esercitare potere informazionale nei confronti di altri agenti informazionali, in particolare nei confronti di gruppi e individui umani.

È finito l’ordine mondiale ? Si può ancora ricercare ? Certo, oggi tale ricerca appare impossibile, laddove stanno venendo meno tutta una serie di certezze che appartenevano a un mondo che non c’è più e nel passaggio, teorizzato da Floridi (2017), dalla storia all’iperstoria. Henry Kissinger (2017, pag. 362) riflette sul tema dell’ordine mondiale in termini critici: Un quarto di secolo di crisi politiche ed economiche di cui le pratiche e gli ammonimenti occidentali sono stati considerati responsabili, o almeno corresponsabili – insieme all’implosione degli ordini regionali, ai bagni di sangue settari, al terrorismo, e a guerre finite senza vittorie -, ha messo in questione gli assunti ottimistici dell’epoca immediatamente successiva alla guerra fredda: ovvero che la diffusione della democrazia e dei liberi mercati avrebbe automaticamente creato un mondo giusto, pacifico e inclusivo.

All’inizio degli anni ’90 si parlava di “fine della storia”. Cosa è rimasto di quell’ottimismo ? Chi scrive pensa che il realismo imponga un nuovo pensiero, capace di guardare sia ai processi storici della realtà, maturando un giudizio storico pertinente, sia alla condizione umana “sottostante”, a ciò che accade in ogni uomo e nella convivenza. Torna di grandissima attualità  la lezione di Hannah Arendt (2006), raccolta nell’intervento che Ella fece nel 1959 in occasione della consegna del premio Lessing. Così disse:  Il mondo sta tra le persone e questo “tra” – molto di più (contrariamente a quanto spesso si pensa) degli esseri umani o dell’Uomo – è oggi oggetto della massima preoccupazione e dello sconvolgimento più manifesto in quasi tutti i paesi. Anche là dove il mondo è ancora, o è mantenuto, quasi in ordine, la sfera pubblica ha perduto l’intensità luminosa che in origine apparteneva alla sua essenza. E ancora: La storia conosce molti periodi in cui lo spazio pubblico si oscura e il mondo diventa così incerto che le persone non chiedono più alla politica se non di prestare la dovuta attenzione ai loro interessi vitali e alla loro libertà privata. Li si può chiamare “tempi bui” (Brecht).

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