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L’imposta digitale europea, tra problemi vecchi e nuovi

Di Sigurd Næss-Schmidt e Bruno Basalisco
digitale

Continuano le discussioni tra i ministri delle finanze europei in merito alla tassazione digitale. Il tema centrale riguarda la Digital Services Tax (Dst) proposta dalla Commissione Europea a marzo, la quale prevederebbe un aumento del 3 percento della tassazione sul fatturato derivante da servizi digitali come pubblicità online, intermediazione nell’e-commerce e vendita di dati degli utenti.

In seguito ad una analisi condotta sulla proposta dell’Unione Europea abbiamo recentemente pubblicato i risultati ottenuti in un nuovo studio presentato a Bruxelles attraverso una discussione aperta. Esperti di tassazione provenienti da diversi paesi europei hanno puntualizzato diversi problemi legati a questo tipo di tassazione. La giustificazione, il perimetro e l’implementazione della tassa digitale sono state oggetto di scrutinio.

In primo luogo, la nuova tassa sarebbe giustificata dalla necessità di mitigare un’apparente sotto-tassazione delle aziende digitali, considerazione che tuttavia non trova riscontro né in analisi empiriche né in valutazioni basate sulla logica economica. Le simulazioni sulle quale viene motivata la proposta della Commissione Europea evidenziano il fatto che le aziende digitali destinano elevate quote di investimento in ricerca e sviluppo, una categoria di spesa che beneficia di un sistema di tassazione privilegiato rispetto ad altre voci di spesa in investimento. D’altro canto, le simulazioni non tengono conto del fatto che le aziende digitali ricorrono maggiormente al finanziamento azionario rispetto ad aziende che effettuano meno investimenti in ricerca e sviluppo, ma che al contempo ricorrono a fonti di finanziamento meno rischiose.

Di conseguenza il tasso di tassazione effettivo tende ad aumentare, poiché quasi tutti i sistemi di tassazione internazionale favoriscono il ricorso al debito rispetto al finanziamento azionario. Questo fattore non viene preso in considerazione nei calcoli della valutazione di impatto. Infatti uno studio che copre gli ultimi anni mostra come le aziende digitali paghino lo stesso tasso di imposta sul reddito societario rispetto alle altre aziende. Oltretutto il trattamento favorevole riservato agli investimenti in ricerca e sviluppo è del tutto intenzionale: i rendimenti sociali degli investimenti effettuati in settori intensivi in ricerca e sviluppo come Ict e l’industria farmaceutica eccedono i ritorni privati, ne consegue la pratica internazionale di promuovere investimenti in ricerca e sviluppo attraverso incentivi fiscali e altre misure.

In aggiunta la valutazione di impatto non tiene adeguatamente conto delle conseguenze per lo sviluppo dell’economia digitale nell’Unione Europea derivanti dall’introduzione della Dst o di misure equiparabili a livello nazionale da parte degli stati membri. Dapprima la valutazione di impatto assume che le aziende digitalizzate sarebbero in grado di assorbire la maggior parte dei costi. Tuttavia questa considerazione non viene supportata da adeguate ricerche empiriche volte a quantificare gli effetti di aumenti di tassazione comparabili. Infatti le aziende non avrebbero altra alternativa che scaricare i costi sul prezzo correndo il rischio di uscire dal mercato in una prospettiva di lungo periodo. Ne consegue la necessità di riflettere accuratamente sulle ricadute che coinvolgerebbero Pmi, consumatori e posti di lavoro a livello europeo – considerazione che non trova riscontro nella valutazione di impatto. Sulla base degli effetti esposti la Dst produrrebbe effetti negativi sul benessere dei consumatori europei.

Un altro punto che merita particolare attenzione riguarda cinque distorsioni negative che coinvolgerebbero il mercato unico digitale e l’economia europea nel complesso: (I) Le piattaforme digitali cederebbero quote di mercato alle alternative non digitali. (II) Le piattaforme che eccedono la soglia di tassazione cederebbero quote alle piattaforme al di sotto della soglia di tassazione. (III) Le Pmi che utilizzano piattaforme online cederebbero quote di mercato ai venditori che non ricorrono ad intermediari per le vendite online. (IV) Le aziende esportatrici europee cederebbero quote di mercato ai concorrenti non europei sul mercato globale. (V) Infine, le aziende che rispetterebbero la normativa cederebbero quote di mercato alle aziende che non rispetterebbero la normativa a causa dei limiti di applicazione della stessa.

Inoltre la Dst si troverebbe in disaccordo con gli sforzi dell’Oecd di trovare una soluzione comune per la tassazione globale. Il punto focale della discussione verte sulla necessità di assicurare che il reddito delle società venga tassato là dove viene creato. Ciò è da intendersi come il Paese in cui le aziende impiegano forza lavoro e capitale per lo sviluppo, la produzione e la messa sul mercato di prodotti e servizi. Al contrario la Dst introdurrebbe un nuovo concetto, secondo il quale i servizi, in aggiunta all’ Iva e accise già dovute, verrebbero tassati nei paesi dove si stima la presenza dei loro consumatori. Ciò avverrebbe sulla base di un concetto spurio: la contribuzione degli utenti come nuova base di tassazione.

In conclusione la nostra analisi suggerisce la necessità di una ulteriore valutazione della proposta sia in termini dei motivi alla base dell’introduzione di una tassa digitale che sugli effetti che coinvolgerebbero il processo di trasformazione digitale a livello europeo, così come nel contesto del tentativo di implementare un sistema di tassazione sostenibile a livello internazionale

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